EP
Non hanno bisogno di presentazione i Popguns: sono un'istituzione dell'indie pop da quasi 40 anni. Il nuovo ep è un vero scrigno di gioielli e Red Cocoon è un pezzo incredibile.
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Non hanno bisogno di presentazione i Popguns: sono un'istituzione dell'indie pop da quasi 40 anni. Il nuovo ep è un vero scrigno di gioielli e Red Cocoon è un pezzo incredibile.
Dopo il Pterodattilo alato e il Plesiosauro marino, è la volta per il musicista londinese di tornare con le zampe a terra e di pubblicare il primo vero album del suo gruppo, dedicato all'Alce Gigante che campeggia nella bella copertina.
McCabe, probabilmente lo sapete già, è anche chitarrista dei Fresh, mentre gli altri due ME REX, Rich Mandell e Phoebe Cross (Kathryn Woods, già parte integrante e preziosa della band, compare solo in due episodi, peccato!), sono membri degli Happy Accidents: due gruppi che sono parte attivissima di quel frizzante movimento di punk gentili che animano la scena inglese da qualche anno.
Rispetto alle band citate (aggiungiamo pure i Martha), il progetto ME REX è forse quello più complesso e ambizioso. Myles ha riservato al suo progetto personale tutto lo sperimentalismo di scrittura di cui è capacissimo: strutture non sempre usuali (prendete l'incipit bipartito Slow Worm / Infinity Worm con le due versioni del leit motiv prima acustica-lo fi e poi indie rock antemica), liriche torrenziali, pianoforte spesso al centro con chitarre ruvide che gli fioriscono attorno, calma e tempesta che si alternano dentro ogni canzone, riff a tratti virtuosistici, ironia a mazzi, ritmi uptempo, crescendo energetici come piovesse e ritornelli di sfrontata immediatezza distribuiti in ogni singolo pezzo.
I riferimenti sono quelli che abbiamo già dichiarato in passato: i Neutral Milk Hotel, i Death Cab For Cutie e in generale l'indie garage americano dei Novanta.
Se c'è una cosa che McCabe sa fare è davvero scrivere canzoni intelligenti e terribilmente coinvolgenti, e in Giant Elk ce ne sono undici, una infilata dietro l'altra, senza possibilità di riposarsi dalla corsa a perdifiato dei suoi ME REX, come un unico impetuoso flusso di coscienza che si nutre di parole ed elettricità.
Ecco allora, dopo l'inizio che abbiamo detto, la delicata potenza di Eutherians, l'entusiasmante travolgente dialogo fra synth, chitarra e voce di Giant Giant Giant (forse l'episodio più riuscito del lotto), la liquida morbidezza bagnata di suoni elettronici di Halley, la ritmica franta di Oliver (e qui l'ombra di Ben Gibbard è davvero stampata sullo sfondo) e una meraviglia come Spiders, che dal suo carillon anni '80 esplode nei fuochi d'artificio corali a cui Myles ci ha abituato da sempre, con un mono-ritornello super scenografico. Si prosegue con il math rock logorroico di Jawbone, il power pop alla New Pornographers di Pythons ed infine il gran finale di Summer Brevis, che è un distillato dello stile ME REX in cinque minuti costruiti a strati attraverso un fragoroso climax liberatorio.
Può darsi che la passione di McCabe per i giganti preistorici si rifletta proprio nella magniloquenza delle sue composizioni, che sono sempre a loro modo piuttosto ingombranti (tante parole, tanti strumenti, tante soluzioni diverse dentro ogni pezzo), ma non c'è un'oncia di prosopopea nelle canzoni dei ME REX. Anzi, si legge in trasparenza nell'elettrico entusiasmo di ogni episodio un amore da nerd per ciò che i tre di Londra hanno costruito: un amore che ha qualcosa di tenero e (post) adolescenziale e che brucia in ogni singola nota.
Laura Colwell ha quella voce lì, una voce che ti abbraccia e ti solleva da terra, dolce e penetrante, potentissima nella sua delicatezza, polite e senza tempo, ed è come sempre l'anima pulsante dei Sun June ed il tratto che li rende del tutto inimitabili.
E nei dodici episodi di Bad Dream Jaguar è come sempre Laura a prenderci per mano e ad accompagnarci in un viaggio narrativo che attraversa tanto i paesaggi vasti del loro Texas (visti spesso e volentieri dal finestrino di una macchina, con l'autoradio accesa), quanto i paesaggi delle paure, delle memorie, dei sogni di ogni giorno. Il racconto si deposita sulla coperta calda di una musica che suona ovunque dilatata e confortevole, trovando sempre una naturale armonia nell'impasto delle chitarre, del pianoforte, della morbidissima sezione ritmica, in una prospettiva di timida psichedelia.
Le canzoni di Bad Dream Jaguar sono - non è nemmeno il caso di discuterne - molto belle, curatissime, dense e leggiadre al tempo stesso. Ciò che manca forse, rispetto a quel monumento che era Somewhere, sono quei magici crescendo che rendevano l'album precedente un vero arcobaleno sonoro. Crescendo che ci sono anche qui, ben inteso, ma hanno spesso - per una scelta d'insieme, mi pare - una prudenza che li trattiene con i piedi piantati a terra.
Davanti agli undici episodi dell'album di debutto dei tre di Melbourne (città che all'indie pop ha sempre dato tantissimo) la dimensione twee è talmente forte ed evidente da apparire veramente come il motore di tutto. In ogni canzone - durata canonica tre minuti, da manuale - c'è tutto quello che ci possiamo aspettare: attitudine catchy, pochi fronzoli e un sapiente equilibrio fra uptempo e midtempo.
Il gruppo di San Francisco ritorna oggi con il suo album numero due, che riprende il discorso dove era stato interrotto, senza particolari cambi di rotta ma a valle di un lavoro di perfezionamento stilistico pregevole.
I Seablite (o meglio le Seablite, vista la netta prevalenza femminile) fin dagli esordi hanno abbracciato la lezione del dream pop primigenio, quello delle Lush per intenderci, insistendo sul suo lato più melodico e sui lasciti di quest'ultimo nell'ondata brit pop dei primi '90. E' davvero il loro marchio di fabbrica e lo gestiscono con estrema naturalezza.
Nei dodici pezzi di Lemon Lights non troviamo le suggestioni shoegaze sottese al primo disco: le chitarre raramente arrivano a sfrigolare (giusto in Drop Of Kerosene e nella più aggressiva Blink Each Day) e quasi ovunque prevale l'intenzione evidente di suonare luminosi e catchy (Smudge Mas A Fly, Melancholy Molly, Monocrome Rainbow, Frozen Strawberries...), mettendo insieme in modo equilibrato elettricità e miele, muscoli e immediatezza.
Una grande conferma.
Da qualche anno Gretchen ha in piedi anche un'altra collaborazione con il musicista californiano Ken Aki, collaborazione che ha sortito un paio di ep sotto il nome Hero No Hero.
C'è un pezzo, in questo album di debutto dei due, che si intitola Sitting On A Cloud. Ecco, è una perfetta descrizione della musica di Gretchen e Ken: un guitar pop talmente leggero, luminoso e frizzante da farti levitare i piedi e toglierti, per il tempo di una three minute pop song, dalla grigia realtà di tutti i giorni, proiettandoti in un mondo aereo di chitarre scampanellanti, melodie di zucchero e ironia sorridente.
Gli Hero No Hero nascono programmaticamente come omaggio al guitar pop dell'era C86 e di band di culto come gli Heavenly (in effetti Gretchen ha davvero molto di Amelia Fletcher e delle sue varie reincarnazioni musicali), e tutto nella loro musica va in questa direzione, dallo stile sbarazzino al gusto melodico deliziosamente retrò.
Il fattore centrale è, a mio parere, proprio la voce di Jenna. Anziché mimetizzarsi nelle architetture degli strumenti - cosa che avviene spesso nel dream pop propriamente detto - ne diviene quasi sempre una colonna portante, mettendo in evidenza la sua personalità e la sua innata eleganza. Le chitarre fluide e luccicanti, il viscoso dinamismo della sezione ritmica, i synth che incorniciano tutto, sono sempre al servizio della vocalità di velluto della Kyle, che emana un fascino diafano e sensuale. Siamo dalle parti dei Wolf Alice, se volete un paragone immediato. Con un coté di cantautorato femminile (Soccer Mommy, Mitski...) che spesso ruba la scena.
L'album di debutto dei Bleach Lab mette in vetrina tutto quello che la band ha già ampiamente anticipato nei precedenti ep e lo fa con una estrema e intelligente cura produttiva che ottiene un risultato che definirei in tutto e per tutto "sontuoso" e ineccepibile, sempre scenografico ed emozionale.
Fin dall'iniziale All Night siamo accolti in un abbraccio soffice di chitarre che ricorda molto le cose dei Night Flowers, soprattutto quando il pezzo si apre nel crescendo crepuscolare del ritornello. Crescendo che ritroviamo idealmente quasi ovunque lungo i dieci episodi del disco: nell'energico midtempo di Indigo, impreziosito da uno scenografico violoncello (un po' Basement Revolver l'atmosfera), nelle trame raffinatissime dell'intensa e sfumata Counting Empties, nell'inquietudine elettrica e catchy di Nothing Left To Lose, nell'ariosa ampiezza narrativa e in fondo catartica di Life Gets Better...
Un disco magnifico (e pure un po' magniloquente, ma in senso buono) da una band di eccezionale talento.