E non è un caso allora se il master di questo secondo ep della band di Düsseldorf sia stato affidato niente meno che a Simon Scott, che degli Slowdive è il batterista e il responsabile di tutti i suoni elettronici. Una presenza che garantisce senz'altro il fatto che i cinque tedeschi possiedono innanzitutto una salutare ambizione, e poi che, rispetto al loro ep d'esordio, hanno fatto davvero dei notevoli passi avanti sia nella scrittura che nella produzione.
Hannin Nasirat e compagni sanno muoversi con sicurezza in un territorio di confine che sta a metà tra dream pop e power pop, dove le linee melodiche sono sempre morbidamente immediate ma l'impianto sonoro si regge sempre sulla poderosa e sferzante energia delle chitarre, con un retroterra che è evidentemente shoegaze (in Weeks Into Tears soprattutto) ma non solo.
I cinque pezzi di Retriever funzionano alla perfezione e mostrano piacevoli somiglianze con i Say Sue Me più vigorosi o i Beths (Young Again), con i Wolf Alice (Lilies and Sea, l'episodio più memorabile del lotto, a mio parere), con i Bleach Lab (Glow, splendida e avvolgente), con i Basement Revolver (Sleepless, la più aggressiva e oscura dell'ep). Tutte band, quelle citate, che hanno una forte propensione scenografica, possiedono un cuore catchy ma dentro un involucro di elettricità statica dai contorni inquieti. Esattamente ciò che gli Attic Ocean riescono ad essere con pregevole maturità.
Una band da tenere d'occhio per il futuro.