27 maggio 2022

Roller Derby - Singles Collection ALBUM REVIEW

C'è qualcosa di ironico e geniale in una band che intitola il proprio (mini) album di debutto Singles Collection, proprio come fanno i gruppi "arrivati" che vogliono mettere sulla mensola più alta i loro trofei. Tuttavia, a ben vedere,  i Roller Derby onestamente non hanno fatto altro che mettere in fila i singoli che hanno pubblicato da quando esistono, cioè dal 2020. Certo, il fatto che si tratti di grandi, grandissimi singoli, giustifica l'operazione e la dà un sarcastico lustro.

La band di Amburgo, a mio parere, si prende a mani basse la palma di newcomer dell'anno, mettendo in luce - stavolta con l'evidenza del disco, un episodio dopo l'altro - un talento ed una personalità che raramente sono già così definiti agli esordi. 

Philine Meyer e compagni suonano un indie pop che in effetti non si sente spesso in giro: le chitarre hanno il dinamismo dell'indie dei Novanta, a tratti ombre post punk (Starry Eyed) e spesso l'avvolgente liquidità del dream pop (Underwater sembra uscita dalla penna della Molly Rankin più ispirata); i sinth onnipresenti hanno chiaramente quel retrogusto Ottanta che va di moda oggi; tutto l'impianto melodico (e la bella, educata, luminosa e raffinatissima vocalità di Philine) pesca in un'estetica da girl gruoup dei Sessanta (Something True, deliziosa anche nelle liriche in francese), ma con quell'occhio fresco e intelligentemente retrospettivo che di recente abbiamo celebrato nei Say Sue Me.

Quello che davvero colpisce in tutti i sette singoli è la presenza di un pop touch che, come dicevamo, ha qualcosa di miracoloso: una scrittura che travalica i generi e le epoche e che trova la quadratura perfetta anche in una confezione di elegantissimo equilibrio, che spinge dove e quando deve e fa scintillare ogni superficie. I pezzi funzionano tutti ed esibiscono da una parte una catchyness formidabile (I Wish e Flying High ad esempio) e dall'altra un'ambizione, forse non dichiarata ma evidente, di costruire piccole ma elaborate architetture pop di pregio. 

Imperdibile!

24 maggio 2022

Sea Lemon - Close Up EP REVIEW

Non so molto di Natalie Lew, se non che viene da Seattle (città che, come sappiamo, ha una grande tradizione indie pop) e che questo Close Up è il suo debutto con il moniker Sea Lemon.

I tre singoli che ci hanno fatto conoscere Sea Lemon nel corso dell'ultimo anno puntavano tutti nella direzione di un dream pop arioso e melodico, nello stile di Hazel English, della prima Hatchie, e - non a caso - dei Castlebeat di quel Josh Hwang che è il patron della Spirit Goth, l'etichetta che ha scoperto e lanciato Natalie Lew. 

A dispetto del tono piuttosto inquieto e notturno delle liriche, i cinque pezzi dell'EP viaggiano quindi sulle ali leggere di chitarre jangly e riverberi atmosferici che si intrecciano piacevolmente e mescolano in modo perfetto malinconia e dolcezza.


20 maggio 2022

Nectar - No Shadow ALBUM REVIEW

E' curiosa la copertina del nuovo (secondo) album dei Nectar. Kamila Glowacki, che della band di Champaign, Illinois è cantante, chitarrista, autrice di tutte le canzoni e pure produttrice, ha dipinto una natura morta in luce diretta (No Shadow, quindi) con un limone e uno specchio in cui il limone non si riflette ma solo uno sfondo vuoto che si presume alle spalle di chi guarda. 

Curiosa anche perché, a dispetto della natura un po' concettuale del dipinto, la musica dei Nectar possiede invece una programmatica immediatezza, con i piedi ben piantati in quel genere ibrido di punk, garage pop e Ninetees indie in cui si muovono gruppi che da queste parti amiamo molto, dai Beths ai Fresh, dai Beach Bunny ai Martha.

La ricetta è semplice: tante chitarre, tanta energia positiva, ritmi uptempo, melodie sempre cantabili, armonie vocali. In questo senso, pezzi come Routine o Unusual You (ma ne potremmo citare altri) fanno quello che devono fare con spietata efficacia. Quello che fa il vero passo oltre una riuscita ma un po' scontata piacevolezza sono canzoni come la splendida, toccante Ponytail - siamo dalle parti della Waxahatchee delle origini -  una divertente e divertita Unlucky Buddy con i suoi coretti sixtees, la cantautorale Lucky, dove le capacità vocali e di scrittura di Kamila emergono con grande forza emozionale e la conclusiva elettroacustica e un po' post-adolescenziale Cold Walk

14 maggio 2022

Say Sue Me - The Last Thing Left ALBUM REVIEW

Nel 2018 Where We Were Together (che era il loro secondo album) aveva messo i razzi alla carriera dei Say Sue Me, sparandoli dritti nella stratosfera delle "grandi band indie" e lanciandoli in un tour mondiale che ha consolidato senz'altro la loro fama.

Tutto più che meritato, specialmente per una band che non viene certo da Brooklyn o Glasgow, ma da quella bizzarra, vivace e lontana periferia orientale innamorata di tutto quello che è occidentale che è la Corea del Sud. 

All'epoca quello che ci colpì del gruppo di Busan era la sua attitudine al contempo onnivora, formalmente elegante e pure terribilmente concreta nello sfornare gemme indie pop che all'indie pop, quello originario, sembravano essersi abbeverate fino all'ultima goccia. 

Nei quattro anni successivi i Say Sue Me non si sono certo fermati, nonostante il dolore per la morte del primo batterista Kang Semin e la lunga interruzione pandemica: hanno anzi preparato con la consueta cura autarchica il loro ritorno, che ovviamente è uno dei più attesi del 2022. 

Che cosa c'è di nuovo allora nella musica della band coreana? Iniziamo prima da ciò che rimane immutato più o meno dagli esordi, cioè quella capacità di creare leggerezza a partire da trame di chitarre jangly, luminosi riverberi elettrici e melodie che sono freschissime e retro al tempo stesso: Around You e No Real Place sono in questo senso l'esempio perfetto dello stile Say Sue Me, che per molti versi ricorda l'intelligenza catchy degli Alvvays e la forza gentile dei The Pains Of Beeing Pure At Heart, e spiega bene quanto si possa essere efficaci restando essenziali. E c'è, come sempre, molto altro: soprattutto quell'"essere pop" che in pezzi come We Look Alike davvero esprime un'eleganza atemporale e trova nel lavoro alle chitarre e nella scrittura di Byungkyu Kim un moltiplicatore formidabile. 

La vera differenza rispetto al passato sta in pezzi come l'iniziale The Memory Of The Time (strumentale e cinematografico, intriso di una morbida malinconia) e la straordinaria To Dream, cuore pulsante dell'intero album, un caldo abbraccio di chitarre dream pop che si stratificano l'una sull'altra e si sfaldano a poco a poco, dove la voce di Sumi Choi si abbandona ad una fragile delicatezza e le liriche sono - caso unico per i Say Sue Me - in coreano. 

Ma qualcosa di nuovo c'è anche nella placida e sinuosa Photo Of You, sfavillante nel ritornello di un'aura sixties da girl group che non ti aspettavi, elettricità e lustrini, e una Sumi Choi mai così determinata. 

In definitiva sembra che i vari episodi del disco siano stati disposti in una sorta di climax a tracciare  un'evoluzione stilistica della band, e The Last Thing Left, con la sua dinamica e sognante rotondità in grado di attraversare con una falcata d'entusiasmo Jesus & Mary Chain, lo shoegaze e il dream pop più immediato, appare sia come il vertice dell'album, che come una possibile strada da percorrere nel futuro (strada in fondo già aperta cinque anni fa da quel capolavoro che è Good For Some Reason).

Si può parlare, credo, di perfezione. La stessa che ritroviamo nei due numeri conclusivi: il quadretto acustico strappacuore Now I Say (ehi, un'altra cosa nuova!) - romanticismo puro, ma con l'equilibrio che solo una semplicità twee può dare, e infine la marcetta George & Janice, scritta apposta per celebrare il matrimonio di un amico, gioia pura e ottimismo a manate, che è esattamente quello di cui abbiamo tutti bisogno di questi tempi e che chiude il disco mettendo in chiaro che l'umore generale dei Say Sue Me di oggi è questo. Una scelta che pare promanare anche e soprattutto da una chimica di gruppo che i quattro di Busan, nel loro quasi decennio di unione artistica, hanno reso così solida e naturale da offrire costantemente a chi li ascolta l'idea della felicità che viene dal fare canzoni indie pop insieme, come antidoto alle mille routine di ogni giorno (guardate il video di No Real Place qui sotto per capire meglio cosa intendo). Un'idea che Sumi Choi e compagni trasmettono davvero da ogni singola nota che suonano, pur con la loro educata e sorridente timidezza.

Un grandissimo album da - ora lo possiamo dire con certezza assoluta - una delle migliori band indie pop che ci siano mondo oggi. 

 

10 maggio 2022

Hater - Sincere ALBUM REVIEW

Quando, cinque anni or sono, uscì l'album d'esordio degli svedesi Hater, You Tried, tutti si meravigliarono di quanta maturità ci fosse nella scrittura e nel suono di una band che in realtà non aveva pubblicato quasi nulla in precedenza. Il secondo disco Siesta, uscito esattamente un anno dopo, aveva reso evidente l'ambizione della band di Caroline Landahl di non farsi inquadrare tout court come dream pop, complicando la trama post punk dei propri riferimenti stilistici e producendo un album non immediato come al debutto, ma senz'altro impressionante. 

Da allora il quartetto di Malmo ha rallentato in modo brusco, riaffiorando in sostanza solo nel '21 con lo splendido, liquido, denso, ipnotico, avvolgente singolo Bad Luck, che è sicuramente il pezzo forte di questo Sincere. A che punto sono gli Hater oggi? L'impressione, ascoltando con attenzione i nove episodi dell'album, è quello di una band che conserva intatto quel talento bruciante che avevamo amato fin da subito, e che al contempo lavora sempre di più sulle sfumature e sulla qualità di quella scrittura che, come dicevamo prima, è il grande plus degli svedesi, senza inseguire alcuna idea di immediatezza.

Non c'è infatti un pezzo realmente catchy in Sincere: l'atmosfera è notturna ovunque, a tratti capace di qualche timida e vagamente algida carezza (il ritornello inaspettato di I'm Yours Baby, l'invernale catartica malinconia di Proven Wrong), quasi sempre gentilmente ruvida (Something). Gli inserti strumentali più eclettici che costellavano il disco precedente, qui scompaiono in favore di chitarre spesso taglienti, acide e sature (Brave Blood), che sembrano davvero risalire alla fonte primaria dei Joy Division (Far From A Mind, per dire) e che finiscono per essere la vera intelaiatura, talvolta centrifuga, di ogni canzone (Summers Turn To Heartburns). La voce di Caroline, al centro, cuce il tutto con la consueta dose di personalità, in grado di essere accorata senza bisogno di alzare un solo tono. I tempi spesso si allungano. Stilemi dream / shoegaze affiorano di rado, giusto nella conclusiva Slowdiveiana Hopes High. E, pezzo dopo pezzo, emerge con forza la bravura degli Hater di tirare fuori da un rigore quasi geometrico degli squarci di luce e scintille (Renew, Reject), un po' come i Fear Of Men o, per restare in Svezia, i più impetuosi Makthaverskan. 

Album davvero non facile, ma da non perdere.

06 maggio 2022

Yawners - Duplo ALBUM REVIEW

Intitoli un tuo pezzo Rivers Cuomo, lo pubblichi come singolo su YouTube e capita che sua maestà Rivers Cuomo in persona lo commenti scrivendo che gli piace un sacco. E' quello che è successo a Elena Nieto, la musicista che sta dietro il progetto Yawners, arrivato oggi al suo secondo album.

L'amore della cantante e chitarrista spagnola per i Weezer è evidente oltre il pezzo citato: siamo dalle parti di un power pop con un 'anima punk gentile e i piedi ben piantati dentro l'indie degli anni Novanta, non lontano dall'immediatezza muscolare di band come Fresh, Martha e ME REX (questi ultimi compagni di etichetta di Yawners). 

L'idea generale è di un catartico e salutare disimpegno: i dieci episodi scorrono via come un sorso di freschezza e bollicine, alternando liriche in spagnolo (più efficaci) e in inglese e spingendo spesso e volentieri sul pedale di un'elettricità spumeggiante, sincera, diretta e uptempo. Niente di trascendentale, per carità, ma una carrettata di energia positiva che mi ricorda da vicino un altra band iberica straordinaria e dimenticata come i Juniper Moon.

Uno di quegli album che, senza averlo minimamente previsto, sono capaci di farti svoltare una giornata cominciata male. 

01 maggio 2022

Crystal Eyes - The Sweetness Restored ALBUM REVIEW

Più un collettivo che una vera e propria band, i canadesi Crystal Eyes sono una delle nuove band della scena indie pop più strane e affascinanti del momento. 

The Sweetness Restored - il titolo viene da una canzone del connazionale Leonard Cohen - è il secondo album del gruppo guidato da Erin Jenkins ed è in verità un'eclettica antologia di cose piuttosto disparate che, da un lato, ha il merito di uscire con decisione dai canoni del genere (l'etichetta dream pop viene usata in verità dalla stampa con troppa nonchalance: non è dream pop questo) e dall'altro ha un effetto piacevolmente straniante e disorientante (i sei psichedelici minuti di I Still Believe In Love rappresentano bene il versante bizzarro dei Crystal Eyes). 

Nei nove episodi dell'album c'è un variopinto frullato multivitaminico e leggermente alcolico dove memorie diverse si alternano e sovrappongono con uno spirito leggero e disincantato che a me ricorda molto quello dei B52s: un po' di New Order, un po' di Jesus & Mary Chain, un po' di profumi sixties, un po' di Bangles, un po' di Liz Phair e un po' Lana del Rey, e poi profusioni di synth anni ottanta e organo Hammond, chitarre post punk e qualche brezza di riverberi, archi, salti di tempo e ritmi dispari. Cose difficilmente abbinabili in genere, ma che qui non so perchè funzionano sempre. 

L'impressione con i Crystal Eyes è spesso di avere davanti una creatura inafferrabile da cui non sai mai cosa aspettarti, e poi però c'è - quasi sempre e in alcuni pezzi in modo super efficace (Wishes e A Dream I Had i miei favoriti) - uno spirito che è più catchy e trascinante che freddo e sperimentale, come ci si potrebbe attendere da dei musicisti che scelgono programmaticamente di percorrere strade fuori dagli schemi.