Ricordo abbastanza distintamente i momenti in cui ho ascoltato per la prima volta un nuovo gruppo di cui poi mi sono innamorato. E' successo molte volte, come credo sia successo molte volte a ogni appassionato di musica. Talvolta capita con una band che sta muovendo i primi passi, che ancora non ha pubblicato un vero esordio discografico e si sta costruendo passo dopo passo. Sono i momenti che forse danno più soddisfazioni e smuovono un'emozione particolare, perchè è un po' come assistere all'istante in cui un fiore, non sappiamo ancora bene di che colore o forma, sta sbocciando.
Con i Night Flowers (mi rendo conto adesso che la metafora è quanto mai azzeccata) è successo così. Quando ho ascoltato per la prima volta Glow In The Dark, che uscirà a breve come 7', dopo poche note mi ero già reso conto di avere tra le mani qualcosa di prezioso.
I cinque ragazzi di Londra suonano un guitar pop arioso, rotondo, dinamico e gentile, semplice ed elegante, catchy e sognante al tempo stesso. La già citata Glow In The Dark può essere un ottimo passaporto per entrare nel mondo dei Night Flowers: a me ha fatto subito pensare a band come i Westkust o i Kid Wave che mi hanno emozionato ed esaltato l'anno scorso, ma con in più una dolcezza (sarà la voce di Sophia Pettit) ed una - non saprei come altro dire - purezza, che li rende speciali e mi ha spinto a riascoltare il pezzo almeno una dozzina di volte di seguito (non mi capita spesso, vi assicuro).
Se avrete pazienza di scoprire anche i singoli della band già usciti negli anni precendenti troverete sicuramente degli altri piccoli tesori: gli inaspettati e travolgenti inni dream pop Sleep e Chaser, la veloce e muscolare Sitting Pretty, e le dilatazioni shoegazer dall'anima solare e melodica come quelle contenute nei vecchi EP Night Flowers e Single Beds/North.
In attesa, ovviamente, del primo album...
28 giugno 2016
25 giugno 2016
Cat Be Damned - Daydreams In A Roach Motel [ALBUM Review]
Ho trovato pochi nomi d'arte più bizzarri di Cat Be Damned, tuttavia il suo detentore, Erik Phillips di Richmond, Virginia - il tizio impalato che ci guarda inespressivo dall'altrettanto bizzarra coprtina di Daydreams In A Roach Motel - non sembra precisamente un amante del mainstream.
Erik ha una voce ed uno stile vocale che potrebbe assomigliare a Neil Young o a Jason Lytle dei Grandaddy, ma le sue canzoni ricordano nello spirito delicatamente lo-fi Elliot Smith. In rete potrete trovare facilmente numerosi EP prodotti da Erik da solo (in tutti i sensi) o in split con altri artisti concittadini, tutti intrisi da una quieta e gentile disperazione provinciale. Nessuno però ha la qualità di Daydreams In A Roach Motel, dove Cat Be Damned mette in fila otto piccoli gioielli di songwriting artigianale che possiedono - nella loro nuda essenzialità da cameretta, nel loro placido jingle jangle di chitarra, nella loro apparente timida spontaneità - un vero e proprio magnetismo difficile da spiegare a parole. Pezzi come Soft Collision, Pretty Heavy o Wet Matches, con il loro incedere cantilenante e vagamente dimesso, arrivano con leggerezza inesorabile ad installarsi nella memoria, rivelando quasi in modo inconscio la loro profondità.
Erik ha una voce ed uno stile vocale che potrebbe assomigliare a Neil Young o a Jason Lytle dei Grandaddy, ma le sue canzoni ricordano nello spirito delicatamente lo-fi Elliot Smith. In rete potrete trovare facilmente numerosi EP prodotti da Erik da solo (in tutti i sensi) o in split con altri artisti concittadini, tutti intrisi da una quieta e gentile disperazione provinciale. Nessuno però ha la qualità di Daydreams In A Roach Motel, dove Cat Be Damned mette in fila otto piccoli gioielli di songwriting artigianale che possiedono - nella loro nuda essenzialità da cameretta, nel loro placido jingle jangle di chitarra, nella loro apparente timida spontaneità - un vero e proprio magnetismo difficile da spiegare a parole. Pezzi come Soft Collision, Pretty Heavy o Wet Matches, con il loro incedere cantilenante e vagamente dimesso, arrivano con leggerezza inesorabile ad installarsi nella memoria, rivelando quasi in modo inconscio la loro profondità.
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indie pop,
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singer songwriter
22 giugno 2016
Echo Beach - Greetings From Echo Beach [EP Review]
A giudicare dal dolce suono di onde che ci accoglie all'inizio dell'album e dalla suggestiva copertina, ci aspetteremmo che gli Echo Beach vengano da qualche baia californiana baciata dal sole. E invece i quattro giovanissimi membri della band sono cresciuti sulle grigie rive del Mersey, a Liverpool.
Eppure quelle chitarre tremule dell'inizale Tomorrow non possono non farci pensare ad un'ascendenza nella west coast americana, anche se in ciascuno dei 5 episodi di Greetings From Echo Beach c'è, per quanto non esibita, una sottile e cupa inquietudine, suggerita dalla vocalità imperfetta di Adam Burns e Joe McBride, insita nel jingle jangle ossessivo della splendida Strung Out, e abbozzata nelle accennate trame quasi post rock di Transmission e Interlude. Inquietudine che esplode infine nelle potenti dilatazioni shoegazer della conclusiva Streets, che ricorda da vicino band come i Beach Fossils.
Per il momento l'impressione è di un gruppo ancora acerbo, ma il talento è indubbio.
Eppure quelle chitarre tremule dell'inizale Tomorrow non possono non farci pensare ad un'ascendenza nella west coast americana, anche se in ciascuno dei 5 episodi di Greetings From Echo Beach c'è, per quanto non esibita, una sottile e cupa inquietudine, suggerita dalla vocalità imperfetta di Adam Burns e Joe McBride, insita nel jingle jangle ossessivo della splendida Strung Out, e abbozzata nelle accennate trame quasi post rock di Transmission e Interlude. Inquietudine che esplode infine nelle potenti dilatazioni shoegazer della conclusiva Streets, che ricorda da vicino band come i Beach Fossils.
Per il momento l'impressione è di un gruppo ancora acerbo, ma il talento è indubbio.
Categorie:
ep,
indie pop,
indie rock,
jangly,
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20 giugno 2016
Glaciers - Living Right [ALBUM Review]
I Glaciers, quattro ragazzi di Melbourne che a occhio devono avere non più di vent'anni, si qualificano direttamente e in modo inequivocabile come jangle enthusiasts. Siccome lo sono anch'io, è con grande simpatia che mi sono avvicinato a Living Right, che è l'album di debutto della band australiana.
Da quelle parti (includiamo la Nuova Zelanda della mitologica Flying Nun Records) - lo sappiamo bene - l'indie pop fatto di scintillanti trine chitarristiche ha una lunga tradizione, e i Glaciers vi si inseriscono con la stessa naturalezza che di recente abbiamo trovato nei connazionali The Goon Sax.
Le dieci canzoni del disco scorrono via fresche e veloci, cucite di frizzanti trame jangly e liriche post adolescenziali attorno alla voce di Nalin Dayawansa e centrano perfettamente quella ideale ricerca della leggerezza in tre minuti che è l'anima stessa di questo genere. In più i Glaciers possiedono quella gentile malinconia che è stata delle grandi band della Sarah Records come i Field Mice o i Sea Urchins, declinandola sempre in modo dinamico e colorato e confezionando una serie di pezzi (Winter, Local Hero, Ddouble Vvision, Weekdays...) che, senza averne l'aria, mettono sul piatto dei ritornelli terribilmente catchy.
Uno dei dischi imperdibili di quest'anno.
Da quelle parti (includiamo la Nuova Zelanda della mitologica Flying Nun Records) - lo sappiamo bene - l'indie pop fatto di scintillanti trine chitarristiche ha una lunga tradizione, e i Glaciers vi si inseriscono con la stessa naturalezza che di recente abbiamo trovato nei connazionali The Goon Sax.
Le dieci canzoni del disco scorrono via fresche e veloci, cucite di frizzanti trame jangly e liriche post adolescenziali attorno alla voce di Nalin Dayawansa e centrano perfettamente quella ideale ricerca della leggerezza in tre minuti che è l'anima stessa di questo genere. In più i Glaciers possiedono quella gentile malinconia che è stata delle grandi band della Sarah Records come i Field Mice o i Sea Urchins, declinandola sempre in modo dinamico e colorato e confezionando una serie di pezzi (Winter, Local Hero, Ddouble Vvision, Weekdays...) che, senza averne l'aria, mettono sul piatto dei ritornelli terribilmente catchy.
Uno dei dischi imperdibili di quest'anno.
18 giugno 2016
Supermoon - Playland [ALBUM Review]
Non lasciatevi ingannare dalla sovrabbondanza di rosa della bella copertina di Playland, il secondo disco del quartetto tutto femminile delle Supermoon.
Le ragazze di Vancouver suonano in realtà un guitar pop composto ed essenziale, che di giocoso ha ben poco ma punta tutto su una sobria eleganza jangly che può ricordare modelli come Go Betweens o The Bats e, a tratti (nell'iniziale Night Division ad esempio) possiede lo stesso inquieto mood notturno dei Fear Of Men.
Le 8 canzoni dell'album, mai sopra i tre minuti di durata, suonano ugualmente dinamiche ed efficaci, stilisticamente molto coese, senza vette ma con un notevole equilibrio.
Le ragazze di Vancouver suonano in realtà un guitar pop composto ed essenziale, che di giocoso ha ben poco ma punta tutto su una sobria eleganza jangly che può ricordare modelli come Go Betweens o The Bats e, a tratti (nell'iniziale Night Division ad esempio) possiede lo stesso inquieto mood notturno dei Fear Of Men.
Le 8 canzoni dell'album, mai sopra i tre minuti di durata, suonano ugualmente dinamiche ed efficaci, stilisticamente molto coese, senza vette ma con un notevole equilibrio.
14 giugno 2016
Linda Guilala - Psiconautica [ALBUM Review]
E' stata una lenta ma significativa evoluzione quella degli spagnoli Linda Guilala. Riascoltando Bucles Infinitos, l'ottimo album con cui esordirono addirittura 9 anni fa, avrete l'impressione di una band fortemente radicata in un guitar pop luminoso, uptempo e dall'enorme potenziale melodico. Da allora la discografia di Eva, Ivan e Bruno è cresciuta con meditata calma, attraverso un paio di EP lunghi che infittivano e distorcevano il suono delle chitarre e uscivano a poco a poco dai canoni della tradizionale three minute song.
Psiconautica, che esce in questi giorni per la Elefant Records, sembra quasi il punto di arrivo di questo percorso artistico: il germe pop dei Linda Guilala resta ovviamente nel cuore di ogni pezzo (Cosas Nuevas e Accidente lo dimostrano con immediatezza), ma le gentili ed ipnotiche linee melodiche cantate dalla voce tenue di Eva emergono ora sempre da un agitato mare elettrico shoegaze. L'album, che alterna in modo quasi geometrico sketches atmosferici e canzoni più dilatate, ha in effetti il ritmo quieto ma inarrestabile della marea, che investe l'ascoltatore con poderose onde di feedback ma lo lascia sempre piacevolemente galleggiare sulle sue morbide, ampie ed intricate stratificazioni ritmiche e sonore.
I paragoni più ovvi vanno in direzione di Ride, My Bloody Valentine e Slowdive, ma questo in fondo vale per tanti gruppi che oggi si muovono entro l'orizzonte del noise pop (e in Spagna ce ne sono molti: gli Espiritusanto meritano una menzione speciale). In realtà i Linda Guilala percorrono una strada piuttosto personale, lavorando con indubbia bravura su ogni aspetto del proprio suono, dalle chitarre alla ritmica, dalla struttura all'utilizzo dell'elettronica, arrivando a cesellare un album che, nel suo genere, è praticamente perfetto.
Psiconautica, che esce in questi giorni per la Elefant Records, sembra quasi il punto di arrivo di questo percorso artistico: il germe pop dei Linda Guilala resta ovviamente nel cuore di ogni pezzo (Cosas Nuevas e Accidente lo dimostrano con immediatezza), ma le gentili ed ipnotiche linee melodiche cantate dalla voce tenue di Eva emergono ora sempre da un agitato mare elettrico shoegaze. L'album, che alterna in modo quasi geometrico sketches atmosferici e canzoni più dilatate, ha in effetti il ritmo quieto ma inarrestabile della marea, che investe l'ascoltatore con poderose onde di feedback ma lo lascia sempre piacevolemente galleggiare sulle sue morbide, ampie ed intricate stratificazioni ritmiche e sonore.
I paragoni più ovvi vanno in direzione di Ride, My Bloody Valentine e Slowdive, ma questo in fondo vale per tanti gruppi che oggi si muovono entro l'orizzonte del noise pop (e in Spagna ce ne sono molti: gli Espiritusanto meritano una menzione speciale). In realtà i Linda Guilala percorrono una strada piuttosto personale, lavorando con indubbia bravura su ogni aspetto del proprio suono, dalle chitarre alla ritmica, dalla struttura all'utilizzo dell'elettronica, arrivando a cesellare un album che, nel suo genere, è praticamente perfetto.
11 giugno 2016
Amber Arcades - Fading Lines [ALBUM Review]
Pare che Annelotte de Graaf, la giovane musicista olandese che sta dietro al progetto Amber Arcades, abbia covato il sogno di registrare le sue canzoni per molti anni, mettendo da parte i suoi risparmi per poter produrre un disco.
Alla fine il sogno si è realizzato grazie alla Heavenly, che ha affiancato ad Annelotte il produttore Ben Greenberg ed un pugno di musicisti provenienti dai Real Estate e dai Quilt, permettendole di realizzare (a Brooklyn) il suo album d'esordio Fading Lines.
I dieci pezzi del disco mostrano un'artista che, pure sbucata apparentemente dal nulla, sembra già possedere un talento ed una maturità fuori dall'ordinario.
Musicalmente Amber Arcades si muove a suo agio in un guitar pop mosso e curatissimo nei particolari, non lontano dalle cose più immediate dei newyorkesi Sunflower Bean ma anche, perchè no, dalla dinamica psichedelia catchy degli Alvvays, spartendo con equilibrio momenti più brillanti e veloci ed altri più morbidi ed avvolgenti, in cui le appuntite trame delle chitarre si fanno più intricate e si depositano a meraviglia sulla delicatezza dell'organo.
Una delle sorprese più piacevoli dell'anno.
Alla fine il sogno si è realizzato grazie alla Heavenly, che ha affiancato ad Annelotte il produttore Ben Greenberg ed un pugno di musicisti provenienti dai Real Estate e dai Quilt, permettendole di realizzare (a Brooklyn) il suo album d'esordio Fading Lines.
I dieci pezzi del disco mostrano un'artista che, pure sbucata apparentemente dal nulla, sembra già possedere un talento ed una maturità fuori dall'ordinario.
Musicalmente Amber Arcades si muove a suo agio in un guitar pop mosso e curatissimo nei particolari, non lontano dalle cose più immediate dei newyorkesi Sunflower Bean ma anche, perchè no, dalla dinamica psichedelia catchy degli Alvvays, spartendo con equilibrio momenti più brillanti e veloci ed altri più morbidi ed avvolgenti, in cui le appuntite trame delle chitarre si fanno più intricate e si depositano a meraviglia sulla delicatezza dell'organo.
Una delle sorprese più piacevoli dell'anno.
08 giugno 2016
Four Eyes - Welcome To Earth [ALBUM Review]
Due anni fa avevo davvero amato Our Insides, l'album di debutto di Erin Lovett, in arte Four Eyes: era una collezione piena di piccole gemme folk-pop frutto di un songwriting intelligente, scaltro e a tratti sorprendente nella sua totale artigianalità.
La musicista di Athens, Georgia è arrivata oggi alla sua opera seconda, con un titolo impegnativo - Welcome To Earth - e un sottotitolo - Songs For Children - che sembra dichiarare una sorta di "manifesto" della semplicità. Semplicità che si incarna soprattutto nell'essenzialità anti-folk dei dieci pezzi del disco (la dimensione è totalmente acustica e "da cameretta": voce, chitarra, ukulele, glockenspiel, poco altro) ma possiede una delicatezza di tocco ed una capacità di scrittura fuori dall'ordinario, particolarmente evidente nelle splendide liriche narrative e crepuscolari (quelle della filastrocca notturna Monsters sono le mie preferite).
Manca, rispetto all'album d'esordio, la ricerca del ritornello catchy, ma qui il lavoro di Erin sembra fondamentalmente diverso: più vicino alla leggera e incantevole raffinatezza naif dei The Innocence Mission (e un po' alle ultimissime cose di Eskimeaux), piuttosto che al ruvido cantautorato indie femminile in voga. Il risultato è comunque davvero convincente dal primo all'ultimo episodio, a maggior ragione perchè le nuove canzoni di Four Eyes suonano "nude", senza orpelli, dirette e sincere.
Davvero un piccolo tesoro da scoprire!
La musicista di Athens, Georgia è arrivata oggi alla sua opera seconda, con un titolo impegnativo - Welcome To Earth - e un sottotitolo - Songs For Children - che sembra dichiarare una sorta di "manifesto" della semplicità. Semplicità che si incarna soprattutto nell'essenzialità anti-folk dei dieci pezzi del disco (la dimensione è totalmente acustica e "da cameretta": voce, chitarra, ukulele, glockenspiel, poco altro) ma possiede una delicatezza di tocco ed una capacità di scrittura fuori dall'ordinario, particolarmente evidente nelle splendide liriche narrative e crepuscolari (quelle della filastrocca notturna Monsters sono le mie preferite).
Manca, rispetto all'album d'esordio, la ricerca del ritornello catchy, ma qui il lavoro di Erin sembra fondamentalmente diverso: più vicino alla leggera e incantevole raffinatezza naif dei The Innocence Mission (e un po' alle ultimissime cose di Eskimeaux), piuttosto che al ruvido cantautorato indie femminile in voga. Il risultato è comunque davvero convincente dal primo all'ultimo episodio, a maggior ragione perchè le nuove canzoni di Four Eyes suonano "nude", senza orpelli, dirette e sincere.
Davvero un piccolo tesoro da scoprire!
06 giugno 2016
Naps - The Most Beautiful Place On Earth [EP Review]
I Naps sono probabilmente una delle band più promettenti del panorama indie pop. Da qualche settimana The Most Beautiful Place On Earth, il secondo EP di questi quattro ragazzi di Tallahassee, Florida, è uno dei dischi che ascolto più spesso. Rispetto al loro già validissimo lavoro precedente, You Will Live In A Cool Box, che suonava grezzo e coinvolgente, un po' sulle piste dei Dinosaur Jr. e dei Buit To Spill, le nuove canzoni utilizzano in modo ragionato ma deciso drum machine, suoni elettronici e auto tune per ottenere un suono più rotondo e del tutto personale.
L'inziale Bad Vibrations, con le sue liriche ironicamente nichiliste, è già di per sè un piccolo capolavoro e mette subito in chiaro l'idea di fondo dell'EP, ovvero la creazione di una serie di canzoni circolari che funzionano come micidiali ed ipnotici loop melodici. E' il caso della formidabile Social Skills, con la sua delicatissima stratificazione di campionamenti e dell'attualissmo carillon elettronico di Aquarius, ma anche dell'unico momento più legato ad un noise pop fatto di chitarre fruscianti (The Most Beautiful Place On Earth Is The Moon, guidata dalla voce di Katryn Macko, in una nebbia luminosa che echeggia i Blonde Redhead).
Insomma, come spesso accade quando i generi si mischiano fino quasi a scomparire l'uno nell'altro, l'impressione è che siamo davanti a qualcosa che può diventare estremamente interessante, e che già oggi merita senz'altro una attenzione particolare.
L'inziale Bad Vibrations, con le sue liriche ironicamente nichiliste, è già di per sè un piccolo capolavoro e mette subito in chiaro l'idea di fondo dell'EP, ovvero la creazione di una serie di canzoni circolari che funzionano come micidiali ed ipnotici loop melodici. E' il caso della formidabile Social Skills, con la sua delicatissima stratificazione di campionamenti e dell'attualissmo carillon elettronico di Aquarius, ma anche dell'unico momento più legato ad un noise pop fatto di chitarre fruscianti (The Most Beautiful Place On Earth Is The Moon, guidata dalla voce di Katryn Macko, in una nebbia luminosa che echeggia i Blonde Redhead).
Insomma, come spesso accade quando i generi si mischiano fino quasi a scomparire l'uno nell'altro, l'impressione è che siamo davanti a qualcosa che può diventare estremamente interessante, e che già oggi merita senz'altro una attenzione particolare.
03 giugno 2016
Fear Of Men - Fall Forever [ALBUM Review]
Loom, l'album che nel 2014 ha imposto sulla scena indie il nome dei Fear Of Men, era senz'altro una pietra miliare di un genere - chiamiamolo dream pop - che la band di Brighton ha reinterpretato con profonda incisività e uno stile così personale da conquistare una riconoscibilità immediata.
Nei due anni che ci separano da Loom, il gruppo di Jessica Weiss ha acquisito un'indubbia aura di rispettabilità, e questo ha messo sulle spalle del "difficile secondo album" un peso non indifferente, fatto di curiosità e aspettative: cosa ci dobbiamo aspettare dai Fear Of Men? Il seguito ideale di Loom o qualcosa di "nuovo"? Saranno, i tre inglesi, in grado di mantenere intatto il fascino degli esordi?
Davanti a Fall Forever, l'album che esce oggi per Kanine Records, rispondere a queste domande non è facilissimo. Oggettivamente, la nuova fatica di Weiss e soci è degno di plauso: è evidente che le dieci canzoni del disco sono il frutto di un lavoro produttivo attentissimo e il risultato complessivo innova il "suono alla Fear Of Men" insistendo ancora più che nel passato su un cesello elettronico e su ritmiche frante, inquiete e di grande suggestione.
La scrittura della Weiss prosegue in uno scavo psicologico che si traduce da una parte in liriche complesse (la tematica dominante sembra ancora fluttuare tra l'idea della solitudine e della difficoltà dei rapporti e una oscura dimensione onirica) e dall'altra in una serie di paesaggi sonori che qui, rispetto a Loom, sbilanciano il termomento emotivo verso una raffinata glacialità e sono sempre più ancorati alla magnetica voce guida di Jessica (Sane, con le sue spirali bjorkiane, mi sembra l'esempio migliore).
Il primo singolo Island, con la sua notturna ma dinamica e propulsiva immediatezza melodica, funge da trait d'union ideale con il vecchio repertorio dei Fear Of Men, trascinandosi dietro canzoni come A Memory, Undine e Trauma, nelle quali riconosciamo in pieno quella commistione di energia vitale e obliquo decadentismo, avvolgenti muri di chitarre e liquidi sinth, che ci aveva fatto innamorare due anni fa. Tutto attorno i tre di Brighton hanno però allargato orizzonti maggiormente dilatati, ai quali la forma canzone più tradizionale sta stretta e che prendono forma in modo meno spontaneo (e forse meno efficace) a partire da (pur intriganti) trame ritmiche che tendono a prendere il sopravvento (Until You e Ruins ad esempio).
Come ha già notato qualcuno, Fall Forever sembra in definitiva un lavoro di passaggio nella carriera breve ma enormemente significativa di una band di grande talento: non delude ma nemmeno convince fino in fondo e fotografa i tre di Brighton in transito sulla coraggiosa strada della sperimentazione.
Nei due anni che ci separano da Loom, il gruppo di Jessica Weiss ha acquisito un'indubbia aura di rispettabilità, e questo ha messo sulle spalle del "difficile secondo album" un peso non indifferente, fatto di curiosità e aspettative: cosa ci dobbiamo aspettare dai Fear Of Men? Il seguito ideale di Loom o qualcosa di "nuovo"? Saranno, i tre inglesi, in grado di mantenere intatto il fascino degli esordi?
Davanti a Fall Forever, l'album che esce oggi per Kanine Records, rispondere a queste domande non è facilissimo. Oggettivamente, la nuova fatica di Weiss e soci è degno di plauso: è evidente che le dieci canzoni del disco sono il frutto di un lavoro produttivo attentissimo e il risultato complessivo innova il "suono alla Fear Of Men" insistendo ancora più che nel passato su un cesello elettronico e su ritmiche frante, inquiete e di grande suggestione.
La scrittura della Weiss prosegue in uno scavo psicologico che si traduce da una parte in liriche complesse (la tematica dominante sembra ancora fluttuare tra l'idea della solitudine e della difficoltà dei rapporti e una oscura dimensione onirica) e dall'altra in una serie di paesaggi sonori che qui, rispetto a Loom, sbilanciano il termomento emotivo verso una raffinata glacialità e sono sempre più ancorati alla magnetica voce guida di Jessica (Sane, con le sue spirali bjorkiane, mi sembra l'esempio migliore).
Il primo singolo Island, con la sua notturna ma dinamica e propulsiva immediatezza melodica, funge da trait d'union ideale con il vecchio repertorio dei Fear Of Men, trascinandosi dietro canzoni come A Memory, Undine e Trauma, nelle quali riconosciamo in pieno quella commistione di energia vitale e obliquo decadentismo, avvolgenti muri di chitarre e liquidi sinth, che ci aveva fatto innamorare due anni fa. Tutto attorno i tre di Brighton hanno però allargato orizzonti maggiormente dilatati, ai quali la forma canzone più tradizionale sta stretta e che prendono forma in modo meno spontaneo (e forse meno efficace) a partire da (pur intriganti) trame ritmiche che tendono a prendere il sopravvento (Until You e Ruins ad esempio).
Come ha già notato qualcuno, Fall Forever sembra in definitiva un lavoro di passaggio nella carriera breve ma enormemente significativa di una band di grande talento: non delude ma nemmeno convince fino in fondo e fotografa i tre di Brighton in transito sulla coraggiosa strada della sperimentazione.
01 giugno 2016
Hurry - Guided Meditation [ALBUM Review]
La prima cosa che mi è balenata nella mente, ascoltando Nothing To Say e When I'm With You, le due canzoni che aprono il terzo album degli Hurry, sono state le parole di Nick Hornby quando in 31 Songs definisce come deve essere fatta una canzone pop ascoltando Your Love Is The Place I Come From dei Teenage Fanclub.
Il gruppo di Philadelphia non ha ovviamente mai raggiunto la celebrità della mitica band scozzese, ma è probabile che Matt Scottoline e compagni sulla musica pop la pensino esattamente come Hornby. Le canzoni di Guided Meditation sembrano in effetti una sorta di manuale in sedicesimo dello stile dei Fanclub: la melodia al centro, sfacciatamente immediata, rotonda ed efficace (con tutti i cori e i controcori che ci vogliono); le chitarre tutto attorno, scampanellanti quando serve, distorte e avvolgenti quasi sempre, a mettere insieme morbidezza ed elettricità con la sprezzatura di chi lo fa con un sorriso da qui a qui. Tanto che, in definitiva, è quasi difficile mettere in ordine di piacevolezza i nove episodi del disco (Shake It Off però forse li batte tutti), votati ad una forma di power pop solare, fresco ed energetico che potrebbe evocare tanto i Weezer quanto i Nada Surf o i Best Coast, senza volutamente possedere gli spigoli di nessuno di questi.
Il gruppo di Philadelphia non ha ovviamente mai raggiunto la celebrità della mitica band scozzese, ma è probabile che Matt Scottoline e compagni sulla musica pop la pensino esattamente come Hornby. Le canzoni di Guided Meditation sembrano in effetti una sorta di manuale in sedicesimo dello stile dei Fanclub: la melodia al centro, sfacciatamente immediata, rotonda ed efficace (con tutti i cori e i controcori che ci vogliono); le chitarre tutto attorno, scampanellanti quando serve, distorte e avvolgenti quasi sempre, a mettere insieme morbidezza ed elettricità con la sprezzatura di chi lo fa con un sorriso da qui a qui. Tanto che, in definitiva, è quasi difficile mettere in ordine di piacevolezza i nove episodi del disco (Shake It Off però forse li batte tutti), votati ad una forma di power pop solare, fresco ed energetico che potrebbe evocare tanto i Weezer quanto i Nada Surf o i Best Coast, senza volutamente possedere gli spigoli di nessuno di questi.
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