Hold Still Life, l'album con il quale due anni fa debuttarono i Field Mouse (attenzione, non confondeteli con i Field Mice, che sono stati uno dei gruppi della Sarah Records), sembrava decisamente un omaggio all'approccio melodico allo shoegaze degli Slowdive.
Episodic, l'opera seconda di Rachel Browne e compagni (la band oggi è cresciuta a cinque membri dai due originari), evolve in modo sensibile dagli esordi e punta in due direzioni diverse ma convergenti: è un album programmaticamente indie rock, pieno di ritmi aggressivi, chitarre muscolari ed energia allo stato libero (l'iniziale e tagliente The Mirror ci dà subito una sferzata salutare); ma è anche e soprattutto un album pop. Non c'è una sola melodia nei dieci episodi del disco che non nasca per investire in modo immediato l'ascoltatore, con un approccio al contempo intelligente e privo di pretese, a tratti persino raffinato nella costruzione dei pezzi ma sempre intriso di uno spirito punk-pop che bada soprattutto all'efficacia.
Canzoni come Half Life, Accessory, A Widow With A Terrible Secret, Beacon, Out Of Context, ci fanno pensare tanto a band navigate come Beach House e The Vaccines, quanto a gruppi che amiamo da queste parti come Kid Wave e Best Coast e colgono sempre nel segno, forti della personalità vocale della Browne ma anche di una produzione che usa la lima nei punti gusti e non dimentica per strada nessun dettaglio.
30 settembre 2016
Field Mouse - Episodic [ALBUM Review]
26 settembre 2016
Chook Race - Around The House [ALBUM Review]
La casetta suburbana che campeggia nella copertina di Around The House, secondo album degli australiani Chook Race, ci fa pensare che dietro le aiuole curate e i muri di mattoni ci sia un garage in cui la band prova e costruisce le sue canzoni. Insomma, ci fa pensare a quella dimensione casalinga che è connaturata all'indie pop e che suscita subito la nostra simpatia.
Al di là di questo, bisogna dire che fin dalle prime note di Hard To Clean, il pezzo che apre il disco, i Chook Race si fanno amare. Le chitarre partono jangly, poi si fanno via via più dense e dinamiche. Le voci del chitarrista Matthew Liveradis e della batterista Carolyn Hawkins si sovrappongono con una fluida naturalezza. La melodia è semplice e sorniona e ti si appiccica addosso senza colpo ferire.
Una formula che nei pezzi successivi - tutti ottitmi: Sometimes, Eggshells, At Your Door, etc. - sembra perfezionarsi sempre più, mantenendo quella dimensione artigianale (i suoni leggermente sporchi, la produzione essenziale) che si sposa alla grande con una perizia di scrittura e di esecuzione che i tre di Melbourne possiedono assolutamente. La marca di fondo è l'indie leggendario della Flyng Nun, dei Bats, dei maestri Go Betweens, ma i Chook Race hanno personalità da vendere e apparentemente non sbagliano un solo episodio.
Uno degli album imperdibili dell'anno.
Al di là di questo, bisogna dire che fin dalle prime note di Hard To Clean, il pezzo che apre il disco, i Chook Race si fanno amare. Le chitarre partono jangly, poi si fanno via via più dense e dinamiche. Le voci del chitarrista Matthew Liveradis e della batterista Carolyn Hawkins si sovrappongono con una fluida naturalezza. La melodia è semplice e sorniona e ti si appiccica addosso senza colpo ferire.
Una formula che nei pezzi successivi - tutti ottitmi: Sometimes, Eggshells, At Your Door, etc. - sembra perfezionarsi sempre più, mantenendo quella dimensione artigianale (i suoni leggermente sporchi, la produzione essenziale) che si sposa alla grande con una perizia di scrittura e di esecuzione che i tre di Melbourne possiedono assolutamente. La marca di fondo è l'indie leggendario della Flyng Nun, dei Bats, dei maestri Go Betweens, ma i Chook Race hanno personalità da vendere e apparentemente non sbagliano un solo episodio.
Uno degli album imperdibili dell'anno.
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22 settembre 2016
Aüva - Aüva [ALBUM Review]
Non so perchè, ma mi piacciono molto le band che tentano di dare una definizione del proprio stile, magari in modo fantasioso (beh, sarà perchè così mi risparmiano il lavoro di etichettatura). Gli Aüva si auto-intestano come band di surfy psychedelic dream-pop. Traduciamo prima ancora di avere ascoltato la loro proposta musicale: chitarre scampanellanti, canzoni che amano qualche dilatazione, ricerca di atmosfericità sonora.
Ci siamo? Sì, decisamente. La band di Boston, Massachussets nel suo album di debutto non nasconde le proprie ambizioni e ha lavorato alla costruzione di un suono e di un mood generale che attualizzano in modo intelligente l'onda lunga del pop sixtie californiano (e non solo), reinventandolo in dieci raffinatissimi pezzi di brillante immediatezza.
Gli intrecci delle chitarre jangly sono onnipresenti, eleganti e tintinnanti come si deve. Ma il vero tratto distintivo degli Aüva è la complessa e levigatissima dimensione vocale del gruppo: le voci di Miette Hope, Jack Markwordt e Jake Levine si alternano, si mescolano, si fondono armonicamente in ogni canzone con una fluidità sorprendente, conferendo al tutto quel lato dreamy, sottilmente obliquo e sicuramente colto di cui si diceva sopra. Ne emergono canzoni di fascino potente: Ruby, Better, Impending Disaster (la mia preferita), Nothing Else, dove un denso dinamismo e una psichedelia notturna costruiscono trame complesse e sempre suggestive.
Ci siamo? Sì, decisamente. La band di Boston, Massachussets nel suo album di debutto non nasconde le proprie ambizioni e ha lavorato alla costruzione di un suono e di un mood generale che attualizzano in modo intelligente l'onda lunga del pop sixtie californiano (e non solo), reinventandolo in dieci raffinatissimi pezzi di brillante immediatezza.
Gli intrecci delle chitarre jangly sono onnipresenti, eleganti e tintinnanti come si deve. Ma il vero tratto distintivo degli Aüva è la complessa e levigatissima dimensione vocale del gruppo: le voci di Miette Hope, Jack Markwordt e Jake Levine si alternano, si mescolano, si fondono armonicamente in ogni canzone con una fluidità sorprendente, conferendo al tutto quel lato dreamy, sottilmente obliquo e sicuramente colto di cui si diceva sopra. Ne emergono canzoni di fascino potente: Ruby, Better, Impending Disaster (la mia preferita), Nothing Else, dove un denso dinamismo e una psichedelia notturna costruiscono trame complesse e sempre suggestive.
18 settembre 2016
Candy - Waiting For U [ALBUM Review]
Sette mesi fa circa - era febbraio - usciva il terzo album di un artista di Melbourne che si fa chiamare Candy. Il titolo, Azure, sembrava alludere ad un'idea di leggerezza che, in effetti, era perfettamente testimoniata dal mood primaverile di canzoni concise e uptempo, intelligentemente jangly e ruvide quanto basta per dare l'impressione di una ricercatezza indie.
Calum Newton, il musicista che si cela dietro il nome Candy, non ha perso tempo ed è già pronto con il seguito di Azure, intitolato Waiting For U con un radicale cambio di colore in copertina e di umore nella musica. Fin dall'iniziale In A Room In St.Kilda, dove toni intimisti si fondono in modo bizzarro con un sinth invadente, Candy sembra rovesciare dal di dentro la irrequieta ariosità del disco precedente, insistendo su atmosfere più notturne ed oblique, pennellate da chitarre che sono ancora scampanellanti ma suonano più spesso in minore (ed echeggiano decisamente i Cure).
Resta immutata ovviamente la naturale capacità melodica di Newton, che imprime un dna pop anche dove non te aspetti: nel carillon cristallino di Stranger Things, nell'immediatezza di Can't Pretend, nella luminosità stregata di Sleepy Hollow, nel toccante bozzetto acustico Aware, che si apre e si innalza in un finale quasi catartico.
Calum Newton, il musicista che si cela dietro il nome Candy, non ha perso tempo ed è già pronto con il seguito di Azure, intitolato Waiting For U con un radicale cambio di colore in copertina e di umore nella musica. Fin dall'iniziale In A Room In St.Kilda, dove toni intimisti si fondono in modo bizzarro con un sinth invadente, Candy sembra rovesciare dal di dentro la irrequieta ariosità del disco precedente, insistendo su atmosfere più notturne ed oblique, pennellate da chitarre che sono ancora scampanellanti ma suonano più spesso in minore (ed echeggiano decisamente i Cure).
Resta immutata ovviamente la naturale capacità melodica di Newton, che imprime un dna pop anche dove non te aspetti: nel carillon cristallino di Stranger Things, nell'immediatezza di Can't Pretend, nella luminosità stregata di Sleepy Hollow, nel toccante bozzetto acustico Aware, che si apre e si innalza in un finale quasi catartico.
14 settembre 2016
Vansire - Reflections And Reveries [ALBUM Review]
Non c'è titolo migliore, per un album dream pop, di Reflections And Reveries. Josh Augustin e Sam Winemiller, i due giovani musicisti del Minnesota che hanno scelto di chiamare la loro band Vansire, sembrano in effetti aver creato quasi un concept album, costruito in modo che il primo (atmosferico) pezzo si intitoli non a caso Reflection e l'ultima ovviamente Reveries, a disegnare una sorta di viaggio dai confini vasti e sfumati come quelli proposti nella bella foto di copertina.
I Vansire, fin dall'incisiva e ritmicamente complessa Pontchartrain, scelgono una strada personale ed efficace: chiarre densamente jangly, voci filtrate e sempre in secondo piano, melodie gentili che profumano di pop svedese e di Belle & Sebastian (ascoltate bene il pezzo citate e ditemi se la linea melodica non è Ease Your Feet In The Sea), dinamiche mosse ed echi suggestivi. Nel lotto ci sono anche episodi di indole diversa, dove affiora una psichedelia nostalgica ed un paesaggismo onirico (Water Boils su tutte), ma i Vansire sembrano dare il meglio quando le chitarre si fanno più appuntite, le canzoni si asciugano e i tempi si velocizzano: Montana Girl, Love You To, Postal Codes, The Life We Live sono pezzi davvero notevoli e trascinanti, che mostrano doti sopraffine.
C'è molta carne al fuoco quindi in Reflections And Reveries e forse non tutto convince a pieno, ma ci sono cinque o sei cose davvero da applausi.
I Vansire, fin dall'incisiva e ritmicamente complessa Pontchartrain, scelgono una strada personale ed efficace: chiarre densamente jangly, voci filtrate e sempre in secondo piano, melodie gentili che profumano di pop svedese e di Belle & Sebastian (ascoltate bene il pezzo citate e ditemi se la linea melodica non è Ease Your Feet In The Sea), dinamiche mosse ed echi suggestivi. Nel lotto ci sono anche episodi di indole diversa, dove affiora una psichedelia nostalgica ed un paesaggismo onirico (Water Boils su tutte), ma i Vansire sembrano dare il meglio quando le chitarre si fanno più appuntite, le canzoni si asciugano e i tempi si velocizzano: Montana Girl, Love You To, Postal Codes, The Life We Live sono pezzi davvero notevoli e trascinanti, che mostrano doti sopraffine.
C'è molta carne al fuoco quindi in Reflections And Reveries e forse non tutto convince a pieno, ma ci sono cinque o sei cose davvero da applausi.
10 settembre 2016
Stephen's Shore - Ocean Blue [EP Review]
Spesso, dal nulla, ti capita in mano un disco che è una vera e propria gemma. In genere te ne accorgi dalle prime note. Poi, quando sei arrivato alla fine, rifletti sul nome della band/artista e - quasi sempre è così - ne cerchi qualche notizia su internet, visto che non l'hai mai sentito nominare prima.
Sì, con i Stephen's Shore ovviamente è successo così. Le prime note solari, scampanellanti, totalmente luminose di Ocean Blue, con le sue chitarre jangly, con i suoi cori, con la sua perfetta circolarità, con il suo retrogusto di Field Mice, di Orchids, di Brighter. La meraviglia degli altri tre pezzi, che non re-inventano certo l'indie pop, ma ne interpretano lo spirito con una gentile esuberanza che strappa sorrisi. E l'immancabile ricerca su chi siano questi signori che hanno pubblicato uno dei migliori EP dell'anno.
Stephen's Shore vengono da Stoccolma (eh, questi svedesi...!), sono in cinque, a occhio non mi sembrano dei novellini ma ufficialmente sono al disco d'esordio, incidono per la Cloudberry Records, che già di per sè è una garanzia.
Il resto è già dichiarato: due canzoni che sono altrattanti prodigi guitar pop (quella citata e la conclusiva Let's Go Home, talmente fresca e leggera che per i 3:45 di durata potete anche fare senza l'aria condizionata in casa); altre due canzoni che rivelano notevoli doti di scrittura e quell'umore un po' sognante che è un must del genere.
Il disco ideale per questo ultimo caldo scorcio di estate: raccomandatissimo!
Sì, con i Stephen's Shore ovviamente è successo così. Le prime note solari, scampanellanti, totalmente luminose di Ocean Blue, con le sue chitarre jangly, con i suoi cori, con la sua perfetta circolarità, con il suo retrogusto di Field Mice, di Orchids, di Brighter. La meraviglia degli altri tre pezzi, che non re-inventano certo l'indie pop, ma ne interpretano lo spirito con una gentile esuberanza che strappa sorrisi. E l'immancabile ricerca su chi siano questi signori che hanno pubblicato uno dei migliori EP dell'anno.
Stephen's Shore vengono da Stoccolma (eh, questi svedesi...!), sono in cinque, a occhio non mi sembrano dei novellini ma ufficialmente sono al disco d'esordio, incidono per la Cloudberry Records, che già di per sè è una garanzia.
Il resto è già dichiarato: due canzoni che sono altrattanti prodigi guitar pop (quella citata e la conclusiva Let's Go Home, talmente fresca e leggera che per i 3:45 di durata potete anche fare senza l'aria condizionata in casa); altre due canzoni che rivelano notevoli doti di scrittura e quell'umore un po' sognante che è un must del genere.
Il disco ideale per questo ultimo caldo scorcio di estate: raccomandatissimo!
03 settembre 2016
The Cheers Cheers - Carinae [EP Review]
Bedroom Pop Rules The World recitava il titolo di una recente compilation della Boring Productions, etichetta bastata a Shenzen, in Cina. Sappiamo bene come il Giappone sia da sempre terra di conquista per l'indie pop, visto il gran numero di appassionati del genere. La Cina (ma in generale tutto il sud est asiatico, Indonesia per prima) si sta affacciando sulla scena in questi ultimi anni, quindi nessuno stupore se troviamo artisti cresciuti con i dischi della Sarah Records anche nelle metropoli dell'estremo oriente.
Wang Xiao Yu, frontman di una band chiamata City Flanker, è proprio uno di quegli artisti, e - così come gli ottimi compagni di etichetta, gli shoegazer Milkmustache (consigliamo l'EP Imagine Us Toghether) - sembra condividere l'approccio intimista, etereo, atmosferico alla musica da cameretta propagandato dalla propria label. The Cheers Cheers, progetto solista di Wang Xio Yu, è per il momento la migliore delle produzioni della Boring. Le canzoni dell'EP Carinae rivelano non solo una notevole capacità di scrittura, ma anche una gentilezza di tocco elettro-acustica davvero lodevole. Canzoni come l'iniziale suggestiva Midnight Canyon, la languida Strange You Never Knew, la fluida Candy (con quel tocco di janglytronic che ricorda Azure Blue) si nutrono di uno sguardo timido e malinconico non lontano da quello di Lisle Mitnik / Fireflies, che da un decennio è il vero principe del bedroom pop: melodie gentili, chitarre che si intrecciano, scie di sinth, quiete e intimismo.
Wang Xiao Yu, frontman di una band chiamata City Flanker, è proprio uno di quegli artisti, e - così come gli ottimi compagni di etichetta, gli shoegazer Milkmustache (consigliamo l'EP Imagine Us Toghether) - sembra condividere l'approccio intimista, etereo, atmosferico alla musica da cameretta propagandato dalla propria label. The Cheers Cheers, progetto solista di Wang Xio Yu, è per il momento la migliore delle produzioni della Boring. Le canzoni dell'EP Carinae rivelano non solo una notevole capacità di scrittura, ma anche una gentilezza di tocco elettro-acustica davvero lodevole. Canzoni come l'iniziale suggestiva Midnight Canyon, la languida Strange You Never Knew, la fluida Candy (con quel tocco di janglytronic che ricorda Azure Blue) si nutrono di uno sguardo timido e malinconico non lontano da quello di Lisle Mitnik / Fireflies, che da un decennio è il vero principe del bedroom pop: melodie gentili, chitarre che si intrecciano, scie di sinth, quiete e intimismo.
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