28 luglio 2024

Castlebeat - Stereo ALBUM REVIEW

Josh Hwang è senz'altro uno di quegli artisti che non ha bisogno di presentazioni: titolare della Spirit Goth Records e della (one man) band più importante della label, cioè i Castlebeat, è da sempre uno sperimentatore dell'indie pop, uno di quei musicisti che se ti aspetti che facciano A probabilmente fanno B, sempre partendo da un'attitudine di auto produzione e di sostanziale bassa fedeltà.

Giusto un anno fa usciva l'ep Nothing, probabilmente il più neworderiano della carriera di Hwang, ma non esattamente la collezione più riuscita della sua carriera. Conoscendo il musicista californiano e il suo desiderio di eclettismo, mi aspettavo da questo Stereo - album ampio, tredici pezzi - un'altra piccola rivoluzione, e invece no: apparentemente siamo ritornati, almeno in parte, alle atmosfere più dreamy del capolavoro di Castlebeat, ovvero Half Life, che era un piccolo caleidoscopio di chitarre jangly, synth avvolgenti e melodie di ipnotica morbidezza veicolate da una voce che scompare nella sostanza sonora. 

Ecco allora che in canzoni di sorniona potenza come Birthday e Honest troviamo frullati insieme tutti i modelli che da sempre stanno alla base dello stile di Josh - da Jesus & Mary Chain ai Cure più luminosi, gli anni '80 in generale - accostati a numeri di eleganza quasi lounge (Old Flame) e ampie e delicate escursioni paesaggistiche dove i synth delimitano quasi interamente l'orizzonte sonoro (Potion). 
Che Hwang sappia scrivere canzoni di raffinata e obliqua immediatezza non lo scopriamo ora: prendete il carillon vagamente oscuro e ballabile di Anyone (azzardo: sempre un pezzo di Moby).

Quello che manca - se è poi lecito dire che manca qualcosa, ma è solo un'osservazione oggettiva - sono quei pezzi deliziosamente guitar pop che rendevano magico l'album del '22 e che qui lasciano invece molto spazio ad un electro pop umanistico e crepuscolare di sicuro fascino ma non così trascinante. 

22 luglio 2024

SONGS FOR THE SUMMER [PART 1]

Una piccola selezione di singoli usciti nelle ultime settimane.
Tra gli altri, il grande ritorno dei Churchhill Garden che coverizzano un classico dei cechi The Naked Souls, una nuova bella canzone degli australiani EGOISM, la cornucopia infinita di Glenn Donaldson (The Reds Pinks & Purples), il primo pezzo dei mitici Great Grandpa da 5 anni a questa parte, il dream pop magico di Wallace Welsh, l'adorabile nuovo singolo di Kim Deal (sì, Kim Deal!), l'ennesima delizia super catchy di April June, il 90's noise pop dei Deary, il pop punk delle LISASINSON. E altro...







 







18 luglio 2024

Stomp Talk Modstone - Pure Purple Pool ALBUM REVIEW




Ciascuna a suo modo, tutte le band che suonano shoegaze sono un po' ( o tanto) ambiziose. È in fondo un correlato normale per un genere che ha l'obiettivo primario di descrivere attraverso il suono, oltre a quello di "intrattenere" (che è il fine del pop, se mi passate la semplificazione).

Gli Stomp Talk Modstone, che fin dagli esordi suonano shoegaze, non si sono mai sottratti a questa idea di ambizione. Non a caso il loro album precedente, Mew, uscito un paio d'anni fa, aveva già una dimensione a dir poco ingombrante e mescolava momenti d'intensa suggestione ed altri di sperimentazione più o meno rumoristica. Insomma, alcune cose magnifiche e tangenti al dream pop ed altre forse meno riuscite. 

Negli ultimi tempi i cinque giapponesi hanno evidentemente lavorato sul coté più melodico della loro palette espressiva e sono arrivati oggi ad un secondo album, questo Pure Purple Pool, che non sottrae un'oncia alla magniloquenza di Mew ma, molto semplicemente, mette finalmente tutto a fuoco e impila una sopra l'altra venti canzoni (lunghe, come richiede il canone) a formare una impressionante architettura power dream pop di debordante forza comunicativa.  

In fondo basta l'eccezionale infilata dei primi tre pezzi - Baby Sky, Hello New World e Drive: 12 minuti di dolce stordimento super catchy - per rendersi conto di quanto siano diventati bravi gli Stomp Talk Modstone a muoversi nel loro consueto orizzonte di chitarre sfrigolanti, synth zuccherosi e voci femminili di fatata morbidezza. 

Ovvio che la lezione di Loveless è la base di tutto (in Sunflower, What We Want o One Way Ticket si sente eccome, e non solo qui), ma Takamitsu Kawashima e compagni hanno davvero costruito una loro strada personale che riesce a rendere "kawaii" anche i layers più distorti delle chitarre. È il loro trademark stilistico e infatti dentro le centrifughe e il rumore bianco in cui fluttuano molti pezzi c'è davvero sempre un cuore melodico di soffice delicatezza. Con in più qualche incursione in un electro pop quasi ballabile (Sup?/WYD) dove le chitarre si fanno sfondo a un interessante taglia e cuci di campionamenti (succede spesso, e a sorpresa, nella coda di molti episodi). 

Resta, rispetto al passato, una sostanziale bipartizione nella proposta dei STM: da una parte l'anima più catchy ed ariosa, tra Flyying Colours e Churchhill Garden (è quella più riuscita: citiamo anche la piacevolezza floreale di Summer Bell, il power pop di sfrontata immediatezza di Ghost, l'aria twee pop di SPF/NeS, il brit pop oasisiano di Dislike Noise) e dall'altra quella più rigorosamente shoegaze, dove anche la dimensione si fa decisamente più ampia con pezzi che si dipanano verso durate "importanti". 

In verità in questa Piscina di Puro Viola si può nuotare così a lungo che possiamo farci trascinare da correnti diverse, stare beatamente a galla a goderci la luce meridiana del sole o immergerci in profondità dense di mistero (Kill For Me sembra uscita dai Motorpsycho). Può rappresentare e anche un limite, se consideriamo che in due ore di musica si può anche rischiare di annegare, ma ritornando al discorso con cui abbiamo cominciato, è evidente come la band sia totalmente consapevole della propria ambizione da ritenere necessario ogni pilastro di questo castello di miele e distorsioni che ha pazientemente costruito. Come dar loro torto? 

12 luglio 2024

Lovejoy - And It's Love! ALBUM REVIEW

Non si avevano tracce della creatura musicale di Richard Preece da un ep datato 2006 e intitolato significativamente England Made Me. Poche band come i Lovejoy in effetti suonano così "inglesi" anche ad un ascolto superficiale, tanto sono impregnati di un'intera tradizione indie pop che affonda le radici nell'humus eccezionalmente fertile degli Human League, dei Biff Bang Pow!, dei Blueboy, dei prefeb Sprout, dei primi Pulp, dei Brighter (infatti qui ritroviamo anche Keris Howard). Ovvero nell'ala più "romantica" e letteraria del movimento. 

Le canzoni di Preece vivono da sempre di narrazione e sono per così dire confidenziali in ogni loro trama: nella vocalità bassa ed elegante di Richard e in quella angelica di Ally Board, nelle chitarre pigramente scampanellanti, nelle melodie di raffinata (quasi compassata) morbidezza e persino in alcuni soluzioni di elettronica umanistica che echeggiano i New Order che da sempre sono nel dna stilistico della band. 

Negli undici episodi di questo quarto album dei Lovejoy - che esce per Shelflife e Spinout Nuggets e non più per la storica Matinée - ritroviamo perfettamente integro il nucleo ispirato di Preece, con alcuni momenti di soffice e ipnotico incanto (i sei sognanti minuti di Miss You, le chitarre quasi shoegaze di Tender Moments) e una sensazione diffusa di fascino retrò (Sounds Of Silence la mia preferita). Menzione necessaria anche per la splendida copertina. 

06 luglio 2024

The Proctors - Snowdrops and Hot Air Balloons ALBUM REVIEW

Mentre ascoltavo pigramente le ultime uscite, mi sono accorto che siamo arrivati ormai a luglio inoltrato e non abbiamo ancora eletto l'album dell'estate 2024. E in effetti forse non c'è nemmeno. A meno che...

Snowdrops and Hot Air Balloons non è propriamente un album nuovo, per quanto sia in sostanza appena uscito. The Proctors - che sono una delle band storiche dell'indie pop (ne abbiamo parlato qui quindi non mi dilungo) e fra le tante band storiche forse sono quella più sottovalutata - ogni tanto escono dal frigorifero e collezionano un po' di pezzi del loro repertorio, magari rimasterizzandoli e letteralmente estraendoli dallo scrigno delle "grandi canzoni pop dimenticate". 

Gli undici pezzi che trovate qui sono perfetti prodotti della macchina del tempo, ma quando si parla di Proctors il tempo ha davvero un'importanza relativa. Prendete ad esempio un pezzo come Seven Wonders, che è in pratica la didascalia della voce "indie pop" nell'enciclopedia della musica, e poi ditemi francamente se riuscite a datarla: viene direttamente dall'epoca d'oro degli Orchides e dei Field Mice? Eppure lo schema melodico si può sovrapporre al millimetro alle cose migliore dei Pains Of Being Pure At Heart. La questione è che non ne ho idea nemmeno io: è molto semplicemente lo spirito eterno dell'indie pop incarnato in tre minuti di sfrenata catchyness, chitarre jangly e luce meridiana. 

Da appassionati di questo genere - io lo sono e lo siete pure voi, se siete qui a leggere - che cosa possiamo chiedere di più di queste canzoni risplendenti di solare leggerezza (Footseps, Kaleidoscope....), morbide come un abbraccio di brezza mattutina, spesso trascinate dalla scia spaziale della propria dimensione dream pop (che bella che è The Final Kiss), totalmente oneste nella loro cantabilità melodica? Canzoni che finiranno per svoltarci la giornata, perché probabilmente sono nate proprio per questo. 

Summer Begins canta Gavin Priest nel primo sferzante episodio...Ha detto tutto. Buona estate a tutti! 

02 luglio 2024

Lunar Isles - Parasol ALBUM REVIEW

Dice David Skimming che Parasol è ideale per essere ascoltato in una pigra domenica pomeriggio. Pochi artisti come lo scozzese trapiantato a Seoul hanno in effetti il potere di definire atmosfere con la propria musica, trasformandola in uno straordinario mezzo di racconto delle piccole cose di tutti i giorni, di un'emozione profonda o di un'immagine balenata davanti per caso. 

Il dream pop di Lunar Isles lo conosciamo già da tempo - l'anno passato abbiamo lodato volentieri il terzo album di Skimming - e decisamente dentro le canzoni di Parasol ritroviamo quello stile largo, liquido, rilassato ed elegante che abbiamo apprezzato in tutte le uscite precedenti. 

C'è, nei pezzi di David, una interessante commistione fra il surf notturno e sensuale di Cigarettes After Sex e il guitar pop di diafana morbidezza di Day Wave e Beach Fossils. La voce è sempre soffice e confidenziale, le chitarre timide, crespuscolari e scampanellanti, i synth onnipresenti a dipingere il paesaggio intorno, i ritmi sapientemente rallentati, la melodie sempre vagamente sognanti, un'equilibrata catchyness emerge solo qua e là (in Fade Out soprattutto)

Non il disco dell'estate propriamente detta, ma se preferite i cieli un po' imbronciati al pieno sole Parasol è l'album ideale per tenervi saggiamente all'ombra.