Giusto un anno fa usciva l'ep Nothing, probabilmente il più neworderiano della carriera di Hwang, ma non esattamente la collezione più riuscita della sua carriera. Conoscendo il musicista californiano e il suo desiderio di eclettismo, mi aspettavo da questo Stereo - album ampio, tredici pezzi - un'altra piccola rivoluzione, e invece no: apparentemente siamo ritornati, almeno in parte, alle atmosfere più dreamy del capolavoro di Castlebeat, ovvero Half Life, che era un piccolo caleidoscopio di chitarre jangly, synth avvolgenti e melodie di ipnotica morbidezza veicolate da una voce che scompare nella sostanza sonora.
Ecco allora che in canzoni di sorniona potenza come Birthday e Honest troviamo frullati insieme tutti i modelli che da sempre stanno alla base dello stile di Josh - da Jesus & Mary Chain ai Cure più luminosi, gli anni '80 in generale - accostati a numeri di eleganza quasi lounge (Old Flame) e ampie e delicate escursioni paesaggistiche dove i synth delimitano quasi interamente l'orizzonte sonoro (Potion).
Che Hwang sappia scrivere canzoni di raffinata e obliqua immediatezza non lo scopriamo ora: prendete il carillon vagamente oscuro e ballabile di Anyone (azzardo: sempre un pezzo di Moby).
Quello che manca - se è poi lecito dire che manca qualcosa, ma è solo un'osservazione oggettiva - sono quei pezzi deliziosamente guitar pop che rendevano magico l'album del '22 e che qui lasciano invece molto spazio ad un electro pop umanistico e crepuscolare di sicuro fascino ma non così trascinante.
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