30 agosto 2024

Chime School - The Boy Who Ran The Paisley Hotel ALBUM REVIEW

Andy Pastalaniec, il titolare del progetto Chime School, ha dichiarato che con questo secondo album della sua band ha voluto superare i limiti del primo, che a suo parere sembrava in modo troppo pedissequo un omaggio alle band della Sarah Records. E' lui stesso a citare i gruppi del passato che l'hanno ispirato per The Boy Who Wan The Paisley Hotel: i primi Primal Stream, i Teenage Fanclub di Songs From Northern Britain, gli Aislers Set e gli East Village. 

Fondendo idealmente  i modelli dovremmo ottenere un jangle pop di canone abbastanza byrdsiano, programmaticamente orecchiabile, raffinato nella confezione. Ed è esattamente il modo in cui suona il secondo lavoro della band di San Francisco. Inoltre, giusto per dar ragione in toto ad Andy, l'evoluzione rispetto al passato è pure chiaramente leggibile, proprio in un affinamento stilistico e produttivo che ha oltrepassato decisamente l'attitudine tutta artigianale degli esordi, da un lato si fa più aderente ai modelli sixties, dall'altro incamera anche un forte ascendente brit pop (Words You Say ha un evidente sapore oasisiano). 

Inutile ribadire come Pastalaniec sappia bene come si scrive una canzone indie pop e nell'album ce ne sono undici di ottimo livello, scampanellanti, orecchiabili, freschissime e sempre dinamiche, fin dall'iniziale The End e passando per potenziali singoli alternativi piacevolmente retrò come Give Your Heart Away e Wandering Song, dove l'ombra dei Teenage (ma anche un po' quella dei Lemonheads) si scorge chiaramente all'orizzonte. 

26 agosto 2024

Hazel English - Real Life ALBUM REVIEW

Come già era accaduto con Just Give In / Never Going Home, Hazel English ha fatto ancora una volta la scelta, originale e intelligente, di mettere insieme in un album unico due ep usciti separatamente. In questo caso dentro Real Life troviamo i cinque pezzi di Summer Nights, di cui abbiamo già parlato qui, a cui si aggiungono ordinatamente altre sei canzoni che andrebbero a comporre un ep a sé che però ha trovato la sua pubblicazione solo in coda all'album.

Al di là di queste faccende di mera compilazione discografica, Real Life è un disco chiaramente pensato per fotografare, con una unica ampia posa, la musica dell'artista australiana/californiana degli ultimi due-tre anni, il che ha perfettamente senso ed è un'operazione indispensabile per noi fan. 

A proposito degli episodi già usciti nel '22, dicevamo già - con dichiarata gioia - come Hazel avesse pienamente ripreso tra le mani lo stile dream pop così personale che fece innamorare tutti fin dai suoi esordi, merito anche di una perfetta fusione con l'intelligenza produttiva di Jackson Phillips (a.k.a. Day Wave), che del suono inimitabile e riconoscibile di Hazel è il vero artefice.

Gli altri sei episodi li abbiamo raccolti in buona parte come singoli nei mesi scorsi e riprendono alla perfezione - forse con ancor maggiore forza comunicativa e immediatezza catchy - quel formidabile misto di intima narratività (quasi sempre concentrata su fallimenti di relazioni sentimentali: è una costante tematica consueta per Hazel) e di cristallina, eterea, splendidamente diafana catarsi emotiva, che si innesta sempre e comunque sui carillon delle chitarre e dei synth, su un'ariosità melodica di intangibile bellezza, sulla voce timida e ipnotica di Hazel, sul sottile e fragile abbraccio corale che la circonda.

Difficile citare qualche canzone che spicchi sulle altre, perché in verità, da Heartbreaker in giù, è tutto davvero intriso di quella magia che solo English e Phillips riescono a produrre quando si mettono insieme a suonare: un morbido e scintillante mondo di chitarre jangly intrecciate e linee melodiche soffici che trasformano l'amarezza in miele stillante. E' esattamente la dimesione onirica in cui Hazel vuole che ci muoviamo fluttuando insieme a lei, e non è un caso che la conclusiva, quasi neworderiana Hamilton, racconti esattamente questo: un sogno in cui tutti possiamo danzare insieme in un parco di LA al tramonto, ma da cui ci dobbiamo comunque risvegliare per rientrare nella "vita vera" (la Real Life del titolo). 

Abbiamo spesso soprannominato Hazel la "regina del dream pop". E' un nomignolo giocoso, certo, però a ben vedere credo che sia davvero difficile trovare un'altra artista che riesca ad incarnare l'essenza di un genere da un lato con una simile adesione poetica e dall'altro con questa capacità eccezionale e innata di (ri)creare lei stessa dei canoni formali, che tanti negli ultimi tempi hanno più o meno imitato. 

22 agosto 2024

Campfire Social - They Sound The Same Underwater ALBUM REVIEW

I Campfire Social sono una di quelle band che dentro il motore ha una tonnellata di benzina indie '90s e che mescola uno spirito punk ad una forte attitudine melodica. Ne conosciamo molte, che amiamo largamente e incondizionatamente: The Beths, Fresh, Martha, ME REX, Snow Coast, Ex-Void.... 

Non diversamente dai nomi sopra citati, il gruppo di Wrexham, che si autodefinisce collettivo emo/indie ed è sulla scena da quasi dieci anni (numerosi singoli ed ep in catalogo), possiede quella leggerezza ironica ed entusiastica che gli permette di essere muscolare e programmaticamente catchy in ogni cosa che suona. 

I pezzi di questo disco d'esordio - bellissima copertina, tra parentesi - si succedono senza soluzione di continuità con una coinvolgente, corale e sorridente potenza comunicativa: Swim Sam Sum, We Need To Talk About Peter, Patsy Decline... da un lato scorrono via e trascinano con sfrontata freschezza, e dall'altro si fanno apprezzare per una cura nella scrittura che è evidente nell'uso di tanti strumenti (piano, fiati, una pedal steel country nella ballata I'm Not Scared), nell'alternarsi e sovrapporsi corale delle voci, nell'intreccio davvero sapiente delle chitarre, nell'intelligente narratività delle liriche, nello svolgimento stesso delle canzoni, piene di rallentamenti e crescendo (prendete come esempio i quasi 8 minuti di sapore math rock di Living o la poderosa larghezza antemica di Breathe Out Slowly). 

Scrivono i Campfire Social di credere fortemente che la musica sia la migliore terapia e che farla insieme lo sia in modo infallibile. È un bel messaggio e insieme un'ottimo manifesto ideale del loro stile: energico ed energetico, scenografico, esplosivo e motivazionale ("can you say you lived a life worth living" cantano accorati Thomas e Carrie Hyndman in Wendy). 

In definitiva They Sound The Same Underwater è il giusto coronamento di una carriera già piuttosto lunga per una band che merita davvero di avere molta più attenzione di quanta ne abbia avuta finora.  

17 agosto 2024

Quivers - Oyster Cuts ALBUM REVIEW


Nel panorama indie pop, i Quivers da sempre fanno categoria a sé. I motivi sono diversi: non assomigliano a nessun altro gruppo in particolare, hanno dei riferimenti differenti dalla media dei gruppi che trattiamo da queste parti ('80 e '90 sì, ma poco britannici e molto americani: parliamo di una band che ha pubblicato un'intera rivisitazione personale di Out Of Time dei REM) e probabilmente da un punto di vista tecnico sono davvero una spanna sopra chiunque. Probabile che non sia nemmeno indie pop quello che suonano, almeno non come lo intendiamo di solito: però sono senz'altro indie e sono sicuramente pop. 

A tre anni di distanza da quello scrigno di meraviglie che era Golden Doubt, i quattro musicisti di Hobart, ora di stanza a Melbourne, tornano con dieci canzoni nuove che risplendono di quello stesso magico mix di gentilezza (quasi timidezza) melodica e ambizione radiofonica. Pitchfork, che ogni tanto ha delle intuizioni, ha scritto che i Quivers sono dei Go-Betweens che vorrebbero suonare al Coachella: è una definizione ruffiana ma per nulla lontana dalla realtà, perché la band australiana ha veramente un'aura di fascino tanto indiscutibile quanto difficile da spiegare.

Il plus della band è, fin dagli esordi, la sua capacità di alternare e intersecare le voci: tutti - Sam, Bella, Holly e Michael - cantano indifferentemente, tanto che è persino impossibile individuare un vero leader nel gruppo. Una spettacolare perizia vocale che si mette sempre al servizio di un songwriting che sa essere catchy prendendosi rigorosamente i suoi tempi e le sue dimensioni. 

Ecco, veniamo al punto. Se cercate nei dieci episodi di Oyster Cuts una nuova You're Not Always On My Mind (diciamolo, sta ai Quivers come Yellow sta ai Coldplay) o una nuova When It Brakes (cioè la perfect pop song da manuale), i vostri desideri saranno delusi. Non c'è la stessa scampanellante e primaverile spensieratezza melodica in questi pezzi, ma se non vi scorrono i brividi giù per la schiena ascoltando i cinque soffici liquidi ipnotici meravigliosi minuti di Screensaver - una canzone che non ha bisogno di chorus e che è prima di tutto un'immersione emotiva à la The Cure - potete pure smettere di leggere queste righe. 

Insomma, per il loro terzo lavoro Sam Nicholson e compagni hanno lavorato ai loro pezzi un po' come farebbero i Big Thief o i New Pornographers: non hanno allargato il cerchio a partire dall'hook orecchiabile, ma al contrario hanno fatto in modo da distillare da ogni struttura complessa dei chiari momenti di catchyness: un riff di chitarra ficcante, un inciso melodico che comincia a ripetersi, un'armonia vocale angelica e inattesa. In questo modo ovviamente le canzoni si allungano e hanno ritmi spesso medio lenti, ma al contempo diventano delle architetture raffinatissime che fanno entrare l'ascoltatore in punta di piedi e lo catturano dentro pareti che si espandono in continuazione (la lunghissima conclusiva Reckless in questo senso è l'esempio perfetto). 

Se l'iniziale Never Be Lonely ha un peso specifico troppo alto per trascinare verso l'alto (e fa pensare più al cantautorato di Soccer Mommy che alle cose passate del gruppo), è con Pink Smoke che i nostri cominciano a parlare una lingua più pop e consona alle loro corde (l'impasto delle chitarre e delle voci è quello che ci aspettiamo dai Quivers e l'ampia fase strumentale è elegantissima), anche se manca il colpo d'ala. Stesso discorso si può fare per le successive More LostApparition: tutto piacevolissimo e in una cornice di rock molto "classico", però non abbastanza per fare decollare il disco. 

Una ballata piano-driven come Grief Has Feathers, con i suoi inserti di synth e il suo andamento confidenziale e vagamente obliquo, segna decisamente il mood di tutto l'album e rende evidente che non ci dobbiamo attendere alcun ritornello cantabile ma atmosfere più dense e malinconiche. Le stesse che troviamo nella splendida Oyster Cuts, dove la voce di Bella Quinlan si muove con grande delicatezza in un paesaggio dove sono ancora i synth a dominare. 

Stilisticamente Oyster Cuts è un disco di rara coerenza: tutto sembra stare nello stesso orizzonte di sguardo, senza tentazioni di sperimentare cose diverse, né l'esigenza di "piazzare un singolo" forte, che infatti non c'è (potrebbe essere Fake Flowers, che pare davvero uno di quei duetti AC Newman - Neko Case, ma in definitiva anche qui non c'è quel gancio che ti tira davvero su). E' un pregio o un difetto? Qui sta all'ascoltatore decidere. Resta un punto fermo - come già abbiamo ampiamente ribadito: i Quivers sono una band di straordinario talento, e questo talento si legge persino dentro quelle che potrebbero sembrare delle mancanze.  E Oyster Cuts è un album di equilibratissima bellezza. 


13 agosto 2024

Ferri-Chrome - Under This Cherry Tree ALBUM REVIEW


Sempre più spesso ultimamente mi capita di ascoltare band provenienti dall'estremo oriente (giusto di recente abbiamo parlato del monumentale album degli Stomp Talk Modstone e del twee pop dei Cinéma Lumière, ma abbiamo lodato volentieri anche i Coming Up Roses e i Moon In June, senza contare un pezzo da novanta come i Say Sue Me). Il dato comune fra tanti gruppi che in realtà appartengono a culture diverse - Giappone, Filippine, Indonesia, Corea... - a me sembra risiedere in una appassionata, entusiastica, a tratti quasi ingenua adesione ad un'idea di guitar pop programmaticamente catchy, gentile e luminoso. Insomma, che si tratti di uno stile più votato allo shoegazing oppure all'essenzialità del trio chitarra basso batteria, si respira davvero un'aria diversa in tante produzioni indie asiatiche. Un'aria libera e leggera, che non si preoccupa di nulla se non di essere fresca, elettrica e cantabile. 

Una lunga e forse non necessaria introduzione per anticipare che Under This Cherry Tree, terzo disco dei giapponesi Ferri-Chrome, potrebbe essere tranquillamente l'album dell'anno. 

Della band non so molto se non che si tratta di un quartetto e che alcuni membri hanno suonato (e suonano) in altri gruppi storici della nutrita scena dream pop nipponica (io conosco i Boyish, i Mica Flakes e i Sunnychar), il che mi porta a pensare che non si tratti precisamente di ragazzini alle prime armi ma di musicisti che maneggiano il genere con una estrema sicurezza. La Testcard Records ha già publicato due lavori del gruppo: un EP intitolato From A Window nel 2020 e un LP intitolato Dazzling Azure nel 2022, che vi consiglio di recuperare. 

Cosa e come suonano i Ferri-Chrome? Dream pop. In purezza. Lo stesso dei Night Flowers, per intenderci, tanto che - almeno idealmente - mi pare che si possa dire che i giapponesi riprendano bene il lavoro della band inglese, attenuandone la mancanza per noi fan (l'ultimo disco è del '19 ormai). 

Se prendete i primi due pezzi - The River Runs Slowly e Solar Winds - avrete già una perfetta inquadratura di cosa i Ferri-Chrome sono da sempre bravissimi a fare: ovvero quel guitar pop frizzante e appena sfrigolante che rimanda alla lontana alle cose più immediate e sornione dei Ride. Con Transparent Silk c'è però un passo ulteriore verso un power pop che è davvero tutto melodia, quattro quarti sparati, synth quasi ruffiani e che gioca con trascinante allegria a restare in bilico sulle righe. Appena prima di un colpo di genio come la cover elettrica e travolgente di September's Not So Far Away dei maestri Field Mice, che indica in modo consapevole le radici stilistiche dell'intero genere e fotografa i Ferri-Chrome nella loro posa più azzeccata. Vale l'intero album, in un disco che è pure pieno di cose veramente belle e che non ti molla per un secondo fuori dai suoi paesaggi catchy e in piena luce.

Another Space Time in questo senso è - con la sua progressione scampanellante, con la sua sfrontatezza pop, con le sue splendide armonie vocali - una dichiarazione chiara di quanto la band ami alla follia essere immediata, rotonda e orecchiabile in ogni singola nota. Mentre Under This Cherry Tree spinge, se possibile, sul pedale di una dolcezza ancora più sognante, riservando al finale un'impennata di elettricità scenografica. L'album vive di queste due attitudini che si alternano e in definitiva si intersecano. Il discorso infatti è lo stesso per le successive Platinum e Starlight Starlight (quest'ultima una cover degli Exlovers, un gruppo da riscoprire) che alzano leggermente i giri, per poi tornare nella dimensione più morbida e scampanellante di Sometimes Live At Will, l'episodio dove l'alternanza delle voci maschile e femminile riesce con più efficacia. E per i due numeri che chiudono il lotto: la più aggressiva Coastline (che pare un pezzo degli Ash) e l'avvolgente e serenamente romantica Farewell

Insomma, tutto funziona a meraviglia negli undici pezzi che i Ferri-Chrome hanno collezionato per il loro secondo album: tutto risplende di una luce tiepida e meridiana, primaverile nell'anima e teneramente (post)adolescenziale. Un po' nel mood dei primissimi Pains Of Being Pure At Heart, ma in modo più diretto e davvero privo di ombre. Con una forza comunicativa delicata e muscolare al tempo stesso.  

09 agosto 2024

Cinéma Lumière - Wishing It Was Sunday ALBUM REVIEW

Volete una definizione perfetta e senza bisogno di tante parole di cos'è il twee pop? Bene, allora non avete che da ascoltare il primo album dei filippini Cinéma Lumière. 

La band di Manila probabilmente l'avete già sentita nominare da queste parti in occasione dell'uscita di qualche singolo negli anni scorsi, e oggi esce con questo suo primo album dal titolo (twee da morire!) Wishing It Was Sunday. 

Mary Yeung, Jon Tamayo e compagni suonano il guitar pop più luminoso e gentile che possiate immaginare, lo stesso in fondo di tante band asiatiche che sembrano avere nel dna questo approccio di morbida delicatezza che potremmo avvicinare senz'altro (cito un po' a caso) ai primi Cardigans, ai Camera Obscura, ai Tullycraft, ai Blueboy, agli Allo Darlin, in fondo all'intera galassia Sarah Records, ma anche alle cose più soffici dei Say Sue Me. Con in più qualcosa di bambinesco, gioioso e catartico di matrice anti-folk: Sunday per esempio è un gioiellino prezioso super pop da ascoltare e riascoltare a nastro e - lo dico per gli appassionati - a me ha ricordato da vicino una band italiana che ho amato alla follia come i Pecksniff. 

Nei dieci piacevolissimi episodi del disco ovviamente troviamo chitarre jangly, synth ora più colorati ora più dreamy (Longing For You), una azzeccata alternanza delle voci maschile e femminile come da manuale, un misto di catchyness, sorridente positività e spirito naïf che sembra il vero trademark del gruppo (Write Your Name in The Sky e Into The Sun i due pezzi più forti in questo senso). 

Difficile pensare ad un disco più estivo e insieme rinfrescante di questo per fronteggiare il caldo d'agosto. 

05 agosto 2024

april june - baby's out of luck again EP REVIEW

Victoria Zolotukhina è senz'altro un'artista a tutto campo, oltre ad essere un perfetto esempio di una generazione (i ventenni di oggi) che non ama avere confini geografici: studentessa di cinema a New York e di materie artistiche a Helsinki, oggi è basata a Madrid e da alcuni anni pubblica la sua musica con il moniker april june (tutto minuscolo, per rispetto filologico).

Personalmente amo lo stile catchy e super raffinato di april june da quando l'ho scoperta nel 2021, e da queste parti ho segnalato quasi tutti i numerosi singoli usciti negli ultimi anni. 

L'EP in uscita oggi si è fatto davvero attendere, ma ovviamente non tradisce affatto le attese. Da sempre april june si muove in un paesaggio dream pop dai contorni assolutamente personali e - passatemi il termine - ben più "contemporanei" di tante band dream pop. Insomma, non c'è alcuna nostalgia per i canoni del genere e - elemento fondamentale - non sono le chitarre il perno attorno a cui tutto gira, ma i synth e la voce (e, in definitiva, l'impasto sonoro complessivo: sappiamo bene come nella musica pop di oggi la produzione è il 99% del lavoro), con un chiarissimo retrogusto anni '80 che oggi è la moda. 

Victoria ha studiato cinema non è un caso che da sempre le sue canzoni possiedano una dimensione fortemente cinematografica, che si incarna in una narrazione fatta di suggestioni atmosferiche e in una morbidezza "cool", sensuale e crepuscolare, che richiama molto Lana Del Rey ma anche i Cigarettes After Sex. In questo, direi, quella "contemporaneità" di cui parlavamo. Per il resto emerge sempre una grande capacità di essere elegante ed orecchiabile, con alcuni episodi (baby's out of luck again, pretty like a rockstar e carry you on my broken wings su tutti) che sono veramente dei banger alternativi in attesa di esplodere.