28 novembre 2023

Deary - Deary EP REVIEW

Proprio sul confine sfumato e allungato in cui lo shoegaze diventa dream pop (o viceversa), dove le Lush si fondono con gli Slowdive, si stagliano idealmente, su uno sfondo di luce e nebbia, le sagome di Ben e Dottie, i due musicisti londinesi che hanno deciso di chiamarsi deary. 

Il loro EP d'esordio raccoglie sei pezzi dinamici ed eterei al tempo stesso, che senz'altro risentono dell'amore dichiarato dei due nei confronti di Elizabeth Fraser e dei Cocteau Twins. Fin dall'iniziale Heaven, le chitarre si fanno quasi ovunque liquide, intricate e avvolgenti, i synth (mai invadenti ma basilari) disegnano il paesaggio, la voce delicata di Dottie svolge dal fuso delle melodie di sognante e vagamente malinconica leggerezza.

Fairground, che sta giustamente in mezzo all'ep, è l'episodio più forte del lotto: la ritmica è morbidamente inquieta, il carillon elettronico sembra gocciolare da un bigio cielo urbano, la linea melodica vocale si riflette nello sfondo sonoro e ci scompare dentro. Shoegaze nel'anima, ma senza esserlo fino in fondo.

Want You ci prende per mano e ci porta dentro un romanticismo acustico e crepuscolare.

Beauty in All Blue Satin indossa il vestito di algida raffinatezza che già abbiamo visto addosso a una band come i Bleach Lab, che per molti versi assomigliano ai deary e oggi guidano un'interessante schiera di giovani gruppi dream pop britannici.

23 novembre 2023

Apartamentos Acapulco - La Reconciliacion ALBUM REVIEW


Ci sono alcune band davanti alle quali facciamo fatica a rimanere oggettivi, tanta è la carica di affetto che abbiamo nei loro confronti. Per me, una di queste sono sicuramente gli Apartamentos Acapulco, uno di quei gruppi che seguo da fan da così tanto tempo (il 2015, se calcolo bene) che alla fine ad ogni singolo o album che pubblica è come ritrovare dei vecchi amici a cui non si può che voler bene.

La Reconciliaciòn, che esce oggi dopo una manciata di succulente anticipazioni, è il quinto album della band di Granada, e viene raccontato dai nostri come una sorta di ritorno alle origini, allo spirito con cui un decennio fa Angelina e Ismael cominciarono la loro avventura indie pop. 

Guardando retrospettivamente la produzione degli Apartamentos, la band spagnola non ha mai imboccato in verità strade diverse da quella - a metà perfetta fra power pop e dream pop - scelta fin dagli esordi, e se un'evoluzione c'è, era evidente in quel disco meraviglioso che è El Ano Del Tigre, nel gusto melodico squisito, in quella capacità tutta loro di unire elettricità sferzante e dolcezza senza fine. 

Le canzoni di La Reconciliacion ripartono assolutamente da lì, e non c'è meraviglia alcuna: ci sono tante chitarre, le due voci maschile e femminile che si intersecano e fondono, le scie sognanti dei synth, cioè tutto quello che da sempre la band sa fare con classe sopraffina. 

La caratteristica peculiare dell'album sta allora soprattutto nella sua intelligente varietà, nell'alternarsi di momenti più uptempo, sbarazzini e sorridenti, intrisi dell'aura obliqua dell'indie dei '90 (Migajas, Mi Habitaciòn, Nuestro Mejor Momento), ballate illuminate da un romanticismo talmente onesto che strappa qualche lacrima con un catartico crescendo elettrico (Dos Dias Contigo è un capolavoro, punto), angoli acustici di morbido intimismo (Yo Cuidarè De Ti), il pop catchy e saltellante di La Persiana. Nell'apice emozionale dell'album un ampio pezzo dall'architettura incredibile come El Término Medio, che un po' echeggia gli Slowdive di oggi, ma li supera per capacità di lenta ma inesorabile immersione nel racconto e decolla letteralmente nella seconda metà con un cambio di ritmo entusiasmante ed un finale corale spettacolare. E nel finale le chitarre sfrigolanti, i synth atmosferici e la ritmica solenne di Ya No Tengo palabras, che - adesso sì - ci riportano alle prime cose di Ismael e Angelina, a quel dream pop di soffice luminosità, di fervente umanesimo, che amiamo da sempre. 

Che dire? E' impossibile che gli Apartamentos pubblichino canzoni meno che bellissime, e quelle di La Reconciliacion sono un ulteriore fondamentale tassello nella ormai decennale carriera di una della band più importanti dell'indie pop europeo. Come sempre rapiscono, trascinano, esaltano, commuovono. Cosa chiedere di più?

19 novembre 2023

The Smashing Times - This Sporting Life ALBUM REVIEW

Scegliendo per la propria band un nome che rimanda ad una canzone dei Television Personalities, gli Smashing Times hanno evocato programmaticamente la memoria di un singer songwriter genialmente seminale come Dan Treacy, e non è ovviamente un caso se l'indie pop del gruppo di Baltimora possiede in parte proprio quella carica scampanellante, ironica, catchy e sottilmente obliqua.

Gli Smashing Times hanno già diverse pubblicazioni negli ultimi quattro anni, e questo The Sporting Life è il loro secondo album, ancora una volta ispirato ad un'idea di jangle pop che travalica i decenni e si muove con una naturale e sorridente nonchalance sul lunghissimo e sottile ponte che collega Byrds, psichedelia, REM, i gruppi della K Records, della Sarah e della Flying Nun, fino alle ramificazioni più sixities del brit pop e agli Stone Rose, giù giù fino al jangly di oggi (Glenn Donaldson e compagnia). 

Nei sedici pezzi del disco ovviamente tante chitarre tinnanti, una diffusa e luminosa immediatezza, una certa aria straniante e straniata (prendete i sette minuti lisergici di Peppermint Girl), il tutto in una dimensione di artigianale ed essenzialissima spontaneità, che fa sembrare ogni canzone registrata dal vivo. Where Is Rowan Morrison, che in tre minuti e quarantacinque riassume bene lo stile Smashing Times, è il capolavoro del lotto, con un ritornello di sfrontata armonia che se ne esce quasi inaspettato.

11 novembre 2023

Moon In June - ロ​マ​ン​と​水​色​の​街 ALBUM REVIEW

Da sempre il Giappone è terra fertile per tutto quello che ha a che fare con l'indie pop, specialmente sul versante shoegaze, tuttavia non ho mai frequentato molti gruppi nipponici (l'unico che conosco abbastanza bene e che apprezzo sono gli Stomp Talk Modstone). 

Non avevo molte aspettative quando mi sono imbattuto in questo album di debutto dei Moon In June (e confesso che non amo le copertine in stile manga), e invece alla fine mi sono innamorato del loro dream pop così luminoso e catchy, in fondo così simile a quello di band che adoro come Night Flowers o The Blue Herons.

Il background dei Moon In June è dichiaratamente legato allo shoegaze (nel lotto c'è una canzone intitolata Slowdive, e abbiamo detto tutto), tuttavia - anche ascoltando i precedenti - appare evidente come il gruppo giapponese utilizzi l'architettura fuzzy delle chitarre non come elemento portante ma piuttosto come elemento estetico che contribuisce ad una visione sonora decisamente pop. 

Non c'è un secondo nei dodici pezzi del disco che non esibisca una decisa apertura melodica, tanto che affiorano pure qua e là echi dei primi Oasis (Fuzzzzy Moon, Overdriver). Se dovessimo indicare i veri padrini stilistici della band faremmo però subito il nome dei Say Sue Me, per quella capacità di mescolare ruvido e morbido, elettricità e zucchero. Tanto che, a dirla tutta, i cinque di Tokyo potenzialmente potrebbero già rivaleggiare con il blasonato gruppo coreano per talento di scrittura, pulizia del suono, piacevolezza e modulazione dei toni e delle atmosfere. 

Ci sono pezzi davvero molto pop (e molto giapponesi nel gusto melodico, d'altra parte anche le liriche sono nel loro linguaggio materno) tra i dodici, ma anche episodi più muscolari ed altri più dilatati, a squadernare tutte le possibilità espressive che la band sembra possedere, e a mostrare una dimensione che pare già compiutamente internazionale e che meriterebbe a Moon In June un'attenzione non limitata alla sola scena nipponica. 

Per quanto mi riguarda, uno degli album migliori del 2023. 

06 novembre 2023

THALA - twotwentytwo EP REVIEW

Spesso gli artisti che, nello stesso anno in cui hanno pubblicato un album, fanno uscire immediatamente un seguito, lo fanno per dare luce anche a pezzi che sono rimasti esclusi dal disco per qualche motivo. Probabile che sia il caso anche di questo ep lungo con il quale THALA prosegue il discorso iniziato quest'estate con In Theory Depression. Discorso che verteva - lo dicevamo a luglio - ormai su argomenti maggiormente vicini alla dimensione del cantautorato che a quella del dream pop con il quale la berlinese aveva esordito. 

Ciò che sorprende (positivamente) del nuovo ep allora non è una particolare svolta stilistica, quanto la straordinari qualità di queste sei canzoni, che nell'album non solo non avrebbero sfigurato, ma forse si sarebbero prese la copertina e avrebbero reso l'intero disco ancora più bello e completo. 

Già a partire dall'incipit di It Was You, THALA dimostra di avere abbracciato anima e corpo un mondo espressivo affine a quello di Sharon Van Etten, della prima Laura Stevenson, di Waxahatchee e Soccer Mommy: forte emotività, chitarre spesso poderose, oscurità e melodia, dolcezza e catartica elettricità fuse perfettamente insieme, sofferto intimismo delle liriche, grande senso scenografico che però non va mai sopra le righe. 

Con, in più, uno sforzo produttivo (lo notavamo già nell'album) che da un lato ripulisce il suono e dall'altro rende particolarmente efficace e spettacolare la dialettica tra toni soffusi ed esplosioni di energia. Il pezzo che dà il titolo alla raccolta, twotwentytwo, ricalca invece talmente in profondità la soffice densità di Phoebe Bridgers da sembrare davvero una outtake estrapolata da un suo disco. 

Da ascoltare insieme a In Theory Depression, come se ne fosse un ideale e riuscitissimo lato C. 

02 novembre 2023

The Photocopies - Unprofessional Conduct ALBUM REVIEW

Considerando che il primo singolo targato The Photocopies risale al giugno del 2021, e da allora - sono passati appena due anni - Sean Turner ha pubblicato un numero ormai non computabile di altri singoli, doppi a-side, raccolte di b-side, ep, album, mini-album, compilation e quant'altro, c'è davvero da chiedersi quali incredibili risorse possiede il musicista basato nel Michigan per produrre (da solo!) una tale mole di canzoni.

Da sempre Turner interpreta in modo originale l'eredità indie pop di stampo C86 (chitarre jangly e sfrigolanti, totale economia di mezzi, ritmiche dritte e sovente uptempo, melodia intrisa di ironia, liriche torrenziali e ricche di jokes e citazioni, filosofia twee) e in verità i suoi pezzi hanno spesso assunto l'aspetto di sketches di un minuto o poco più, giusto il tempo di una strofa ed un ritornello killer e sotto con un altro. 

Nelle ultime uscite però The Photocopies hanno però aggiunto ingrediente dopo ingrediente alla già funzionale formula del loro guitar pop, parallelamente ai colori sgargianti che hanno invaso le loro copertine. Se nel precedente album Top Of The Pops l'idea della one minute pop song aveva toccato una perfezione programmatica non ripetibile, in questo Unprofessional Conduct quasi tutte le canzoni assumono una dimensione che è, diciamo, maggiormente canonica, compiuta e distesa, facendo pensare non più ad un variopinto giocattolo piacevole e pure un po' troppo intellettuale, ma a un'idea di indie pop che saccheggia un'intera tradizione e si avvicina in molti episodi ai primi Teenage Fanclub o persino alle cose più rock e ritmate dei Belle & Sebastian (sentite There Is No Us Anymore e ditemi se non ho ragione). 

Canzoni contagiose e super catchy come Doing It For The Kids, Divine Intervention, Think About It All The Time, We're Not Photocopies (lo dichiaro: è il mio pezzo preferito di tutto il suo catalogo) potrebbero sembrare un punto di arrivo nel prolifico e per certi versi miracoloso songwriting di Sean Turner, visto che ne conservano lo spirito di ruvida immediatezza distendendolo su una tavolozza più ampia e tridimensionale, con un utilizzo del synth oltre alle chitarre. Ma poi da un artista inarrestabile e originale come lui ci aspettiamo che nel prossimo album (che sarà come minimo un quadruplo concept ed uscirà fra due settimane) cambierà tutto un'altra volta. E comunque vada sarà un successo. 

30 ottobre 2023

EP & SINGOLI [END OF OCTOBER EDITION]

EP

Non hanno bisogno di presentazione i Popguns: sono un'istituzione dell'indie pop da quasi 40 anni. Il nuovo ep è un vero scrigno di gioielli e Red Cocoon è un pezzo incredibile.  


La "Notte al karaoke" di Soccer Mommy è tutto tranne quello che recita il titolo. Sophia si è impossessata di cinque pezzi che risuonano perfettamente nelle sue corde e li ha davvero trasformati. Here dei Pavement è da lacrime...


E finalmente, dopo tanti singoli, Melody è riuscita a pubblicare il suo primo vero ep con il nome Career Woman. Molto più elettrico di quello che pensavamo, ed è un bene...


L'appuntamento mensile con Glenn Donaldson. L'ep con il titolo più curioso dei suoi Red Pinks & Purples. 


SINGOLI

Doppio regalo da parte della regina del dream pop Hazel English. Un pezzo nuovo, Heartbreaker, liquido e leggiadro come tutte le sue cose. Ed una cover spettacolare di una canzone che si può solo amare alla follia e in mano ad Hazel scintilla di bellezza: There She Goes dei La's. 



Non c'è niente da fare, ogni volto che ascolto gli Apartamentos Acapulco mi commuovo. Dos Dias Contigo è una canzone d'amore meravigliosa. Semplicemente. 


I Jetstream Pony sono un supergruppo, lo sappiamo bene, in tutti i sensi. Il doppio singolo è un appetizer per un nuovo album? Speriamo! 


Qualcosa bolle anche nella pentola dei Say Sue Me. Secondo singolo nell'arco di poco più di un mese...


La quota jangle pop del mese è ricoperta alla grande dai canadesi Ducks Ltd. 


E quella per l'indie pop più nostalgico dal debutto dagli inglesi Silk Cuts.


Si parlava dei Laughing Chimes il mese scorso. Se serve un'altra prova del fatto che sono bravi...


Il dream pop che più dreamy non si può degli indonesiani Pale Skies.


26 ottobre 2023

ME REX - Giant Elk ALBUM REVIEW

Molti di noi da bambini sono stati maniaci degli animali preistorici: ne collezionavamo le action figures e ne imparavamo a memoria i nomi scientifici e le caratteristiche. Deve essere stato così anche per Myles McCabe, che con i suoi ME REX ha già pubblicato numerosi ep e singoli tutti improntati ad una sistematica nomenclatura paleontologica. 

Dopo il Pterodattilo alato e il Plesiosauro marino, è la volta per il musicista londinese di tornare con le zampe a terra e di pubblicare il primo vero album del suo gruppo, dedicato all'Alce Gigante che campeggia nella bella copertina. 

McCabe, probabilmente lo sapete già, è anche chitarrista dei Fresh, mentre gli altri due ME REX, Rich Mandell e Phoebe Cross (Kathryn Woods, già parte integrante e preziosa della band, compare solo in due episodi, peccato!), sono membri degli Happy Accidents: due gruppi che sono parte attivissima di quel frizzante movimento di punk gentili che animano la scena inglese da qualche anno. 

Rispetto alle band citate (aggiungiamo pure i Martha), il progetto ME REX è forse quello più complesso e ambizioso. Myles ha riservato al suo progetto personale tutto lo sperimentalismo di scrittura di cui è capacissimo: strutture non sempre usuali (prendete l'incipit bipartito Slow Worm / Infinity Worm con le due versioni del leit motiv prima acustica-lo fi e poi indie rock antemica), liriche torrenziali, pianoforte spesso al centro con chitarre ruvide che gli fioriscono attorno, calma e tempesta che si alternano dentro ogni canzone, riff a tratti virtuosistici, ironia a mazzi, ritmi uptempo, crescendo energetici come piovesse e ritornelli di sfrontata immediatezza distribuiti in ogni singolo pezzo. 

I riferimenti sono quelli che abbiamo già dichiarato in passato: i Neutral Milk Hotel, i Death Cab For Cutie e in generale l'indie garage americano dei Novanta. 

Se c'è una cosa che McCabe sa fare è davvero scrivere canzoni intelligenti e terribilmente coinvolgenti, e in Giant Elk ce ne sono undici, una infilata dietro l'altra, senza possibilità di riposarsi dalla corsa a perdifiato dei suoi ME REX, come un unico impetuoso flusso di coscienza che si nutre di parole ed elettricità. 

Ecco allora, dopo l'inizio che abbiamo detto, la delicata potenza di Eutherians, l'entusiasmante travolgente dialogo fra synth, chitarra e voce di Giant Giant Giant (forse l'episodio più riuscito del lotto), la liquida morbidezza bagnata di suoni elettronici di Halley, la ritmica franta di Oliver (e qui l'ombra di Ben Gibbard è davvero stampata sullo sfondo) e una meraviglia come Spiders, che dal suo carillon anni '80 esplode nei fuochi d'artificio corali a cui Myles ci ha abituato da sempre, con un mono-ritornello super scenografico. Si prosegue con il math rock logorroico di Jawbone, il power pop alla New Pornographers di Pythons ed infine il gran finale di Summer Brevis, che è un distillato dello stile ME REX in cinque minuti costruiti a strati attraverso un fragoroso climax liberatorio. 

Può darsi che la passione di McCabe per i giganti preistorici si rifletta proprio nella magniloquenza delle sue composizioni, che sono sempre a loro modo piuttosto ingombranti (tante parole, tanti strumenti, tante soluzioni diverse dentro ogni pezzo), ma non c'è un'oncia di prosopopea nelle canzoni dei ME REX. Anzi, si legge in trasparenza nell'elettrico entusiasmo di ogni episodio un amore da nerd per ciò che i tre di Londra hanno costruito: un amore che ha qualcosa di tenero e (post) adolescenziale e che brucia in ogni singola nota.

23 ottobre 2023

Sun June - Bad Dream Jaguar ALBUM REVIEW

Ascoltando il nuovo album dei Sun June, mi convinco sempre di più che la band texana sia davvero una repubblica a parte, in sostanza indefinibile conte etichette che affibbiamo d'abitudine - più che altro per comodità - allo stile degli artisti. E' dream pop (per l'apertura atmosferica di ogni pezzo, l'uso dei synth, l'insistenza sull'effetto emozionale) ma non è davvero dream pop. E' indubbiamente folk rock americano fino al midollo, ma non è lo è in un modo canonico. E' cantautorato (la cura delle liriche è splendida) ma in una dimensione collettiva che alla fine fa risaltare più la musica delle parole. Loro, i sei di Austin, lo chiamano da sempre regret pop - a suggerirne l'intimismo di fondo, la nostalgia che intride ogni nota, ma anche la sua catartica luminosità - ed alla fine è l'unica definizione possibile.

Laura Colwell ha quella voce lì, una voce che ti abbraccia e ti solleva da terra, dolce e penetrante, potentissima nella sua delicatezza, polite e senza tempo, ed è come sempre l'anima pulsante dei Sun June ed il tratto che li rende del tutto inimitabili. 

E nei dodici episodi di Bad Dream Jaguar è come sempre Laura a prenderci per mano e ad accompagnarci in un viaggio narrativo che attraversa tanto i paesaggi vasti del loro Texas (visti spesso e volentieri dal finestrino di una macchina, con l'autoradio accesa), quanto i paesaggi delle paure, delle memorie, dei sogni di ogni giorno. Il racconto si deposita sulla coperta calda di una musica che suona ovunque dilatata e confortevole, trovando sempre una naturale armonia nell'impasto delle chitarre, del pianoforte, della morbidissima sezione ritmica, in una prospettiva di timida psichedelia. 

Le canzoni di Bad Dream Jaguar sono - non è nemmeno il caso di discuterne - molto belle, curatissime, dense e leggiadre al tempo stesso. Ciò che manca forse, rispetto a quel monumento che era Somewhere, sono quei magici crescendo che rendevano l'album precedente un vero arcobaleno sonoro. Crescendo che ci sono anche qui, ben inteso, ma hanno spesso - per una scelta d'insieme, mi pare - una prudenza che li trattiene con i piedi piantati a terra. 

19 ottobre 2023

Soft Covers - Soft Serve ALBUM REVIEW

Una band come gli australiani Soft Covers sembra essere nata per offrire una definizione sintetica e perfetta di cosa è il twee pop. Iniziamo con la lista: melodie di zucchero filato, chitarre di morbida luminosità e spesso scampanellanti, tastierine giocose, handclapping, cantato equamente diviso fra una voce maschile e una femminile, liriche narrative mischiate ad un'ironia innocua e sorridente, essenzialità lo-fi come etica d'azione, colori pastello e grafiche bambinesche, un nome stesso che allude alla gentilezza. E poi ovviamente tutto il lato derivativo che va a pescare nel coté più soffice del c86 e dell'indie pop dell'età dell'oro, dagli Heavnely in giù fino al movimento anti-folk. 

Davanti agli undici episodi dell'album di debutto dei tre di Melbourne (città che all'indie pop ha sempre dato tantissimo) la dimensione twee è talmente forte ed evidente da apparire veramente come il motore di tutto. In ogni canzone - durata canonica tre minuti, da manuale - c'è tutto quello che ci possiamo aspettare: attitudine catchy, pochi fronzoli e un sapiente equilibrio fra uptempo e midtempo.