27 giugno 2024

Dropkick - Dot The I (Expanded Version) ALBUM REVIEW

Prima di scrivere questo pezzo ho provato ad orientarmi nella discografia dei Dropkick per cercare di contare quanti album abbiano pubblicato dal 2001 ad oggi, ma ammetto di non essere arrivato ad un risultato del tutto certo: ci aggiriamo intorno ai venti, forse più, se consideriamo anche alcune raccolte di demo, compilation e dischi live. Se poi volessimo tener conto anche del pregevole progetto parallelo di Andrew Taylor, ovvero quei The Boy With The Perpetual Nervousness di cui abbiamo sempre parlato con entusiasmo, il conto aumenterebbe ancora, ma a questo punto non ha più molta importanza.

A proposito di Dot The I, che è uscito originariamente nel 2007, sono invece certo che sia stato il sesto album della band scozzese, forse uno dei suoi migliori, probabilmente il più significativo per fotografare lo stile di Taylor e compagni, sempre perfettamente in bilico fra un luminoso jangle pop alla Teenage Fanclub (con i maestri scozzesi fra l'altro i Dropkick condividono la compresenza di tre songwriters) e un folk rock molto americano e parimenti scampanellante, che deve tantissimo ai Jayhawks. Quest'ultimo lato della band ancora particolarmente evidente in questa fase della carriera della band. 

Perché ne parliamo oggi? Perché è stata pubblicata giusto ora una ampia e gustosa reissue per la quale Andrew ha rimasterizzato tutto pulendo alla perfezione il suono ed ha aggiunto ai dodici episodi originari ben quattordici pezzi provenienti dalle prolifiche sessioni del disco. Insomma, un'ottima occasione per godersi la nuova vita delle dodici canzoni dell'album e soprattutto per scoprire alcuni gioiellini (Breaking The Ice ed Hello in testa) che testimoniano ancora - se mai ce ne fosse bisogno - il grande talento di un gruppo che c'è letteralmente da sempre e pure spesso ci dimentichiamo. 

23 giugno 2024

Secret Postcards - The Way Back EP REVIEW

I Secret Postcards sono quattro ragazzi di Salonicco che suonano l'indie pop più indie pop che potremmo immaginare: due chitarre (la ritmica amabilmente distorta, l'altra che si fa volentieri jangly), basso e batteria, una voce femminile di onesta gentilezza, ritmi midtempo timidamente incalzanti, melodie circolari e cantabili, profumate di una delicata leggerezza retrò. 

Praticamente il manuale stesso del genere, innestato con filologica sicurezza dentro il catalogo della Sarah Records e nei suoi dintorni temporali. 

Al di là dell'effetto nostalgia, le sei canzoni di The Way Back sono davvero una salutare boccata d'ossigeno e non c'è un solo episodio che non possieda una sua dinamica, spontanea, fragile e obliqua grazia, con un piccolo capolavoro al centro che si intitola Sunny e sembra veramente uscito da un disco degli Springfields, dei primi Field Mice o dei Brighter. 

Insomma, la band di Stella Koukoutsi sembra essersi incamminata sulla stessa strada che percorrono gruppi come i Kindsight o i Say Sue Me, quella che ha come obiettivo dare nuova linfa vitale al guitar pop canonico. 

Una menzione speciale anche alla splendida copertina, anche questa deliziosamente retrospettiva nel gusto grafico. 

19 giugno 2024

Harper - The Mother Root ALBUM REVIEW

Fa parte dell'essenza stessa del dream pop l'idea di poter fare musica dagli orizzonti vasti senza uscire dalla propria cameretta. Gli esempi si possono sprecare (e in fondo hanno cominciato tutti così), ma solo alcune band fanno davvero della loro dimensione "familiare" un elemento stilistico portante.

E' il caso degli Harper, che sono in realtà un duo - o per meglio dire una coppia, visto che sono sposati - formato da Matthew e Sadie Groves, e che già da qualche anno si dedicano a costruire un indie pop slowcore di raffinata delicatezza, intimistico e arioso allo stesso tempo, radicato nel folk ma del tutto contemporaneo nelle soluzioni. 

The Mother Root, primo vero album dei due di Leicester che segue un paio di ep, è una collezione di canzoni dallo stile decisamente coerente: la voce gentile di Matt che a tratti quasi scompare dentro un paesaggio sonoro in cui i cori di Sadie sono una brezza primaverile quasi impercettibile e al contempo piacevolissima; un impasto atmosferico di chitarre acustiche e jangly e synth che tiene tutto insieme con grande equilibrio; una ritmica che quasi in modo inaspettato è sempre mossa e piacevolmente dinamica. 

I dieci episodi del disco vanno assolutamente vissuti tutti insieme, come se in fondo The Mother Root fosse un organismo perfettamente autosufficiente, il cui respiro ampio accelera e rallenta impercettibilmente. Bug Crusher è un timido ma potente anthem alternativo: partite da qui se siete incuriositi. 

14 giugno 2024

Bored At My Grandmas House - Show & Tell ALBUM REVIEW

Senza dubbio Bored At My Grandmas House è uno degli alias musicali più curiosi che mi sia capitato di trovare, e proprio per questo ha attirato la mia attenzione (in fondo a chi non è mai capitato da bambino di annoiarsi a casa della nonna?). 
Amber Strawbridge ha deciso di celarsi dietro questo nome già da alcuni anni - era poco più che diciottenne - producendo una serie di singoli e un ep che fin da subito ne hanno messo in luce un notevole talento di scrittura e al contempo una sorprendente perizia tecnica, considerando che si tratta di una polistrumentista autodidatta. 
L'album che esce oggi - ottimamente prodotto da Alex Greaves, già dietro la consolle per BDRMM - è davvero un gioiello di indie pop cantautorale e riflette una maturità artistica già perfettamente compiuta.
Nelle canzoni della musicista di Leeds il perno centrale sembra sempre corrispondere con uno scavo intimo di pensosa profondità (significativo che ci siano pezzi intitolati Inhibitions o Imposter Syndrome), ma intorno gira sempre una catartica giostra di luci e ombre che si esprime attraverso una costante gentilezza melodica, delle chitarre di liquida piacevolezza che sanno sempre spingere sul distorsero al momento opportuno, e un uso ampio elegante ed equilibrato dei synth. Il risultato complessivo è questo mood morbido e avvolgente, a tratti quasi ipnotico ( ad esempio il lungo finale di Don't Do Anything Stupid o l'immersione psichedelica di Hide & Seek), che caratterizza l'intero album e che è il tratto distintivo dello stile personale di Bored At My Grandmas House. 
Le tangenze con artiste/band come Bathe Alone o Bleach Lab ci sono senz'altro, ma in verità Amber sta percorrendo una sua strada piuttosto originale, a suo modo pop, certo, ma anche intrisa di una timida delicatezza che riporta sempre tutto alla originaria e programmatica dimensione "da cameretta" del suo progetto musicale. 

06 giugno 2024

IAN SWEET - SUCKER ALBUM REVIEW

Non mi è mai capitato di parlare di un album con un ritardo di 7 mesi dall'uscita, tanto che prima di scriverne mi sono domandato se fosse il caso. 

Poi ho riascoltato con attenzione questo ultimo di IAN SWEET e mi sono risposto con convinzione che dovevo proprio essere molto distratto alla fine del 2023 per perdermi un disco tanto bello. 

La verità è che mi sono imbattuto qualche giorno fa in una recentissima cover di Anthems For A Seventeen Year Old Girl dei Broken Social Scene, che è una canzone che adoro alla follia e che Jilian ha trattato con la intelligente delicatezza di cui è capace, e da lì sono fortunatamente approdato al disco. 

La cover è questa e se ancora non conoscete IAN SWEET può essere un interessante quanto inusuale punto di partenza: 

Quindi sì, vi palerò di SUCKER, che è il quarto album di Jilian Medford con il moniker IAN SWEET ed è veramente un grande album. La musicista di Los Angeles è in giro da almeno dieci anni e fin dagli esordi porta avanti una via molto personale all'interno di quello che potremmo catalogare come cantautorato indie - diciamo la stessa League in cui giocano Phoebe Bridgers e Haim - con l'enfasi su chitarre ed elementi elettronici che troviamo in Wolf Alice, una sofferta introspezione alla Julien Baker ed una propensione melodica decisamente tutta sua.

Se ritornate ad ascoltare i primi tre dischi della Medford troverete una decisa e piuttosto inquieta dimensione sperimentale, che in SUCKER sembra avere trovato una (forse) definitiva quadratura. I pezzi sono tutti ampi ed ampiamente narrativi, ma la palette espressiva rimane non facilissima da definire in poche parole. Dentro le canzoni di IAN SWEET ci sono veramente tanti ingredienti ed ancora più modelli: un po' dell'obliquità affascinante di Feist, l'allure patinata e programmaticamente eighties dell'ultima Hatchie (FIGHT quasi la cita e poi la supera a duecento all'ora), una tentazione di dancefloor alternativo (Smoking Again ha un potenziale anemico mica male oltre ad essere assolutamente ballabile, così come l'amabilmente ruffiana Your Spit) mischiata con la saturazione citaristica dello shoegaze (Hard), la capacità di strutturare minimali carillon elettronici attorno a poderosi crescendo emotivi (Emergency Contact con il suo chorus killer "i don't mind i don't want to make it right"), qui veramente Bridgersiani. 

Il tutto coniugato con una urgente densità espressiva che trova in un modo o nell'altro il modo di venire a galla, che sia attraverso la forza lirica e sottilmente catartica di Bloody Knees ("what if i die..." sono le prime parole dell'intero album), attraverso l'essenziale introversione di Comeback, oppure la linearità acustica di Clean, che in principio pare una outtake di Waxahatchee ed esplode in un finale sfrigolante.  

Emerge davvero, lungo l'intero album, tutto il talento di una musicista che al momento non ha del tutto ottenuto il riconoscimento che meriterebbe e che ha raggiunto ormai una maturità artistica indiscutibile.