12
Basement Revolver Heavy Eyes
Il dream pop
più scenografico sulla piazza è quello dei Basement Revolver, da Hamilton,
Ontario. La voce di Chrisy Hunt guida i crescendo sfrigolanti di chitarre che
sono il marchio di fabbrica della band, con una strana e affascinante
commistione di timida introversione e antemica energia.
11
Avind Evig Blenda
Dalla
Norvegia una delle sorprese dell'anno. La misconosciuta band di Tonje Tafjord
confeziona un album che sfiora la perfezione, suonando un guitar pop in salsa folk che
alterna equilibrata leggerezza, crescendo emozionali e intimismo acustico.
Liriche rigorosamente in norvegese, ma non è certo un limite.
10
Dead Bedroooms Bummer
Semi
sconosciuti e quasi impossibili da rintracciare nella sconfinata mappa dell'indie americano
(vengono dalla Virginia), i Dead Bedrooms (o meglio "le", vista la
netta maggioranza femminile) hanno esordito con un disco dal fascino magnetico,
intimo e dinamico insieme, pieno di (ottime) idee e di grande
sensibilità.
9
Camp Cope How To
Socialise And Make Friends
Tra i dischi
garage-pop dell'anno, le australiane Camp Cope vincono a mani basse: essenziali
ma non lo-fi, chitarra basso batteria come stile e sostanza, Georgia Maq e le sue due compagne
infilano nove pezzi di impressionante urgenza comunicativa, che suonano
semplici senza in realtà esserlo.
8
Free Cake For Every Creature The Bluest Star
Katie
Bennett e la sua band hanno fatto una rapida transizione: da un passato
assolutamente a bassa fedeltà ad un presente ambizioso in cui le loro canzoni
apparentemente svagate assumono una dimensione più ampia, complessa e levigata,
senza perdere un grammo della leggerezza degli esordi.
7
Massage Oh Boy
Nati quasi
per gioco dall'incontro di due veterani del genere come Alex Naidus (ex The
Pains Of Beeing Pure At Heart) e Michael Felix, i Massage ci insegnano con il
sorriso sul volto che cosa è e dovrebbe essere l'indie-pop: leggerezza, amore
per la melodia, la semplicità al potere. Come dei The Bats trapiantati negli
States, la band macina con sorniona nonchalance luminose trame jangly di
smagliante e quieta freschezza.
6
Say Sue Me Where We Were
Together
Pochi gruppi
quest'anno sono riusciti a farsi amare praticamente da tutti gli appassionati
del genere come i coreani Say Sue Me. Merito senz'altro della disinvoltura con
la quale i quattro di Busan si muovono tra velluto twee ed elettricità C86,
nutrendo il loro guitar pop onnivoro di modelli distanti nel tempo e nello
spazio. Catchy con educata sfrontatezza, gli asiatici sono quest'anno "la
band indie pop di cui tutti parlano". E a ragione.
5
Hater Siesta
I quattro di
Malmo hanno deciso di puntare in alto: un album dalla dimensione ambiziosa (14
pezzi, un'ora di musica), una produzione ricca e attenta ai particolari e
sopratutto un'idea di indie che sfonda i confini basso-bateria-chitarra jangly
da cui venivano, esplorando i territori di un pop imprevedibilmente raffinato e - penso che ci
intendiamo sulla definizione - molto "scandinavo". Che rischio, ma
che risultato! Un po' Camera Obscura, un po' Alvvays, un po' cento altre cose
belle, Caroline Landahl e i suoi si muovono con altera e sensuale sicurezza
entro i confini ampi del genere, senza sbagliare una mossa.
4
Holy Now Think I Need The Light
Quanto a
personalità, Julia Olander e i suoi Holy Now ne hanno da vendere a pacchi. Nel
giro di un paio d'anni gli svedesi hanno perfezionato il loro guitar pop
costruendo uno stile subito riconoscibile e decisamente magnetico, tutto fatto di contrasti, rallentamenti ripartenze e crescendo: levigatissimo in superficie, ma con un cuore di ombre e
bagliori notturni, melodico ma sottilmente obliquo, ruvido dentro e morbido
fuori, restìo a farsi incaselare nella struttura canonica della three-minute-song e al
contempo assolutamente immediato.
3
Night Flowers Wild Notion
L'album
d'esordio della band londinese arriva dopo almeno una decina di singoli sparsi
nella loro (in verità recente) carriera, alcuni formidabili. Wild Notion però
non sceglie la via facile (una compilation di cose bellissime ma già sentite)
ed anzi osa con dieci pezzi nuovi che sembrano fatti apposta per essere
scoperti a poco a poco e, alla fine, restare indelebilmente impressi nel cuore.
Nella capacità di mischiare carezze dream pop ed elettricità shoegaze, la band
di Sophia Pettit è al momento priva di veri rivali, senza debiti d'ispirazione
con nessuno: non c'è episodio nel disco che non riesca alla fine a staccarsi da
terra e a far librare le sue chitarre e la sua melodia nell'aria.
2
Neleonard Un Lugar Imaginado
Sarebbe
facile riassumere i Neleonard come i Belle and Sebastian spagnoli. In
realtà la band catalana è molto di più di questo e vive una sua dimensione
timidamente eroica. Con un grado di celebrità che è inversamente proporzionale
rispetto al pazzesco livello di talento, Nele, Laura e compagni tengono botta e
confezionano un secondo album che - possibile? sì! - è persino più
entusiasmante del loro impagabile esordio, che qui è stato disco dell'anno nel
2016. Dodici episodi uno più bello dell'altro, solari e trascinanti,
raffinatissimi nella loro gentile umiltà, pop nell'anima e nelle ossa, talmente
pieni di vita da portarti via con loro ad ogni ascolto, in un mondo migliore.
1
The Beths Future Me Hates Me
Potenti e
terribilmente orecchiabili, i neozelandesi The Beths hanno mostrato con il loro
album d'esordio di essere già dei veri fuoriclasse. Poco influenzati dalla
celebrata scena autoctona e molto di più dall'indie americano dei '90 (dai
Weezer in giù), Elizabeth Stokes e compagni suonano un guitar pop energico e
intelligente,
ironico e sbarazzino, tecnicamente ineccepibile, sorprendente e travolgente
sotto tutti i punti di vista, pieno di cori, coretti, chitarre muscolari, ritornelli killer e cambi di ritmo, in 38 minuti di prodigiosa e liberatoria corsa a perdifiato.