30 novembre 2019

Pure Moods - Upward Spiral ALBUM

Di quanto tempo avete bisogno per innamorarvi di una canzone? A me qualche volta bastano pochi secondi. E' quello che mi è successo la prima volta che ho ascoltato Tide, il pezzo che apre Upward Spiral, l'album (secondo?) di Adam Madric, in arte Pure Moods. 
Le chitarre jangly che fa tintinnare il musicista australiano non sono diverse da quelle di tante band di cui parliamo da queste parti, ma forse è proprio il "pure mood" della canzone a renderla speciale e, a mio parere, entusiasmante. Quel misto di imbronciata malinconia e serena cantabilità che è da sempre il marchio di fabbrica di tanti gruppi downunder, dai Bats  ai Lucksmiths, dai Go-Betweens ai nomi più interessanti di oggi come Goon Sax o Egoism. Con in più la sghemba piacevolezza di certo indie americano dei Novanta (Pavement, Sebadoh...).
Il resto dell'album - venti minuti in tutto, ahimè - resta sulla stessa morbida e vagamente obliqua lunghezza d'onda, esibendo al tempo stesso un talento melodico fuori dell'ordinario e una dimensione artigianale che arriva al risultato davvero con il minimo dei mezzi. 
Un gioiellino da non perdere per nessun motivo!

17 novembre 2019

Bdrmm - If Not, When? EP

E' un po' strano pensare che quando i cinque ragazzi che formano i Bdrmm nascevano, vent'anni fa, gran parte delle band a cui oggi si ispirano avevano già finito la loro carriera da un pezzo. Ma tant'è: lo shoegaze non è mai davvero tramontato, tanti suoi epigoni si sono riformati di recente e la transizione verso quello che chiamiamo dream pop ha attualizzato anche una scena che è stata all'apice tre decenni fa.
Il quintetto di Hull ha messo insieme oggi sei singoli già pubblicati nei mesi scorsi, che disegnano un paesaggio estremamente interessante fra post punk e dream pop, variando in modo anche piuttosto evidente voci ed atmosfere pezzo dopo pezzo. Se il modello più definito sembra l'elettrica e dilatata morbidezza degli Slowdive, in realtà lo stile dei Bdrmm possiede già una personalità forte, per quanto ancora - è ovvio - in via di costruzione. Gli spazi e i tempi sono sempre ampi, le chitarre usate con mesmerica lentezza, le melodie vivono di malinconica delicatezza, la cura dei dettagli è attentissima, tanto che, se non sapessimo chi stiamo ascoltando, indovineremmo - sbagliando - una band scandinava.




10 novembre 2019

Young Guv - GUV I & II ALBUM

C'è stato un tempo - ormai un quarto di secolo fa, è strano pensarci - in cui le classifiche dei dischi erano dominate da band come i Teenage Fanclub, i primissimi Oasis, i Lemonheads, che rivificavano in modo più o meno sfrontato o spontaneo le chitarre jangly di byrdsiana memoria e il power pop senza tempo dei Big Star e rendevano tutto terribilmente fresco e contemporaneo. E' durato poco, ma è un po' come se lo spirito timido e nascosto delle band della Sarah Records e dintorni all'improvviso si fosse affacciato a Top Of The Pops (con sommo disgusto - lo ricordo bene - dei puristi dell'indie). 
Per il canadese Ben Cook, già chitarrista dei Fucked Up, è come se quella breve stagione non fosse mai passata davvero, e la sua creatura solista Young Guv sta a testimoniare in modo programmatico che quel modo di scrivere e suonare canzoni pop è ancora vivo e vegeto, per quanto meravigliosamente fané
Tra agosto e ottobre è uscito GUV I & II, che nient'altro è se non un unico ampio album diviso in due puntate. Nella prima Ben Cook sembra un Elliot Smith che registra in cantina canzoni dei Teenage Fanclub, ed è uno spettacolo! Nella seconda gli stili si moltiplicano e la produzione è più pensata, mantenendo intatta la base, e il nostro vira qua e là su un easy listening funkeggiante tanto piacevole quanto spiazzante. Il risultato complessivo è ingombrante per volume (19 pezzi) ma si beve quasi in un solo sorso come una bibita dolce e frizzante. 

03 novembre 2019

Great Grandpa - Four Of Arrows ALBUM

Capita quasi sempre che le sorprese più belle vengano all'improvviso, quando e dove meno te lo aspetti. E' il caso del nuovo (secondo) album dei Great Grandpa, Four Of Arrows, che non solo testimonia una salto in avanti pazzesco rispetto agli esordi, ma al contempo ritrae la band di Seattle in una forma artistica che non temo di definire "stato di grazia".
Plastic Coughs, primo disco di Alex Menne e compagni, afferrava con forza quasi adolescenziale un nodo di urgenza comunicativa e lo gettava addosso all'ascoltatore senza in realtà dipanarlo: c'era alla base un power pop nutrito di Weezer, Pixies, Rilo Kiley, Third Eye Blind, The New Pornographers ed altre cento cose che fanno rumore e allo stesso tempo scintillano melodiche, tutto molto interessante e molto aggrovigliato. 
Four Of Arrows, che arriva due anni dopo ed è il frutto di una produzione mirata proprio a sciogliere quei fili senza perderne la forza comunicativa, risolve in modo così naturale ed efficace lo stile dei Great Grandpa, da farci pensare che all'improvviso è sbocciato un gruppo destinato (insieme ai Big Thief ed altri che non nomino qui) a segnare la sua impronta nella scena indie del decennio che va a iniziare. 
Dark Green Water, il pezzo che apre i 44 minuti dell'album, è una perfetta cartina di tornasole dell'idea musicale dei Great Grandpa: la struttura non è lineare, accelera e rallenta, ruggisce di elettricità e a tratti si silenzia a preparare un crescendo promesso che sembra non raggiungere mai del tutto l'apice, poggiando su una sezione ritmica (Carrie Goodwin e Cam Laflam) che sa essere solida e articolata. La voce di Alex - dolcissima e amarissima, sempre sul punto di rompersi, prepotentemente viva - funziona come collante fondamentale fra i capitoli della canzone stessa, ed è sempre lei che ci accompagna, senza soluzione di continuità, dentro il singolo Digger, che è il primo capolavoro del disco e spinge fino in fondo il climax emotivo costruito fin dal primo secondo dell'album. Qui è chiaro che i Great Grandpa stanno prima di tutto raccontando una storia - e lo faranno in ognuno degli undici episodi - e l'architettura di chitarre acustiche e poi distorte e poi di nuovo arpeggiate e infine irte come un muro attorno alla voce della Menne è in realtà la trama della novella intimamente dolorosa che stanno narrando. 
Se la successiva raffinatissima English Garden ha una dimensione quasi cameristica, con i suoi inserti di archi e la sua andatura quietamente rapsodica, con la morbida e ampia Mono No Aware i Great Grandpa tracciano la loro personale via al dream pop, rallentando i ritmi e riempiendo le trame placidamente inquietanti della canzone con suoni elettronici e voci sovraincise. Le chitarre tornano cristalline in Bloom, che è l'unico vero pezzo esplicitamente pop del lotto, nella struttura canonica e nel potenziale melodico, con una sorprendente e scenografica coda strumentale. Dopo la pausa contemplativa di Endling, dove ascoltiamo solo il pianoforte atmosferico di Pat Goodwin, i formidabili due minuti e mezzo di Rosalie - con l'incipit dimesso, l'inusuale schema tripartito e il crescendo inesorabile e quasi inatteso del finale (e qui siamo davvero dalle parti dei migliori New Pornographers) - fanno di nuovo alzare dalla sedia. E non ci si siede più: Treat Jar con la sua sfrontatezza da hit college rock anni '90 tiene alti i giri. Human Condition, con la sua costruzione franta e multicentrica ricorda le prime cose dei Great Grandpa. Split Up The Kids racconta in una dimensione folk ipnotica e commovente una parabola sul tempo che passa (la penna è quella, ispiratissima, della bassista Carrie Goodwin). La conclusione - Mostly Here - non può che essere nuovamente affidata alle montagne russe emozionali di un episodio che ha l'ambizione di spingere la propria durata e i propri orizzonti spaziali ben oltre i sei minuti. 
Album dell'anno, senza discussioni.