Plastic Coughs, primo disco di Alex Menne e compagni, afferrava con forza quasi adolescenziale un nodo di urgenza comunicativa e lo gettava addosso all'ascoltatore senza in realtà dipanarlo: c'era alla base un power pop nutrito di Weezer, Pixies, Rilo Kiley, Third Eye Blind, The New Pornographers ed altre cento cose che fanno rumore e allo stesso tempo scintillano melodiche, tutto molto interessante e molto aggrovigliato.
Four Of Arrows, che arriva due anni dopo ed è il frutto di una produzione mirata proprio a sciogliere quei fili senza perderne la forza comunicativa, risolve in modo così naturale ed efficace lo stile dei Great Grandpa, da farci pensare che all'improvviso è sbocciato un gruppo destinato (insieme ai Big Thief ed altri che non nomino qui) a segnare la sua impronta nella scena indie del decennio che va a iniziare.
Dark Green Water, il pezzo che apre i 44 minuti dell'album, è una perfetta cartina di tornasole dell'idea musicale dei Great Grandpa: la struttura non è lineare, accelera e rallenta, ruggisce di elettricità e a tratti si silenzia a preparare un crescendo promesso che sembra non raggiungere mai del tutto l'apice, poggiando su una sezione ritmica (Carrie Goodwin e Cam Laflam) che sa essere solida e articolata. La voce di Alex - dolcissima e amarissima, sempre sul punto di rompersi, prepotentemente viva - funziona come collante fondamentale fra i capitoli della canzone stessa, ed è sempre lei che ci accompagna, senza soluzione di continuità, dentro il singolo Digger, che è il primo capolavoro del disco e spinge fino in fondo il climax emotivo costruito fin dal primo secondo dell'album. Qui è chiaro che i Great Grandpa stanno prima di tutto raccontando una storia - e lo faranno in ognuno degli undici episodi - e l'architettura di chitarre acustiche e poi distorte e poi di nuovo arpeggiate e infine irte come un muro attorno alla voce della Menne è in realtà la trama della novella intimamente dolorosa che stanno narrando.
Se la successiva raffinatissima English Garden ha una dimensione quasi cameristica, con i suoi inserti di archi e la sua andatura quietamente rapsodica, con la morbida e ampia Mono No Aware i Great Grandpa tracciano la loro personale via al dream pop, rallentando i ritmi e riempiendo le trame placidamente inquietanti della canzone con suoni elettronici e voci sovraincise. Le chitarre tornano cristalline in Bloom, che è l'unico vero pezzo esplicitamente pop del lotto, nella struttura canonica e nel potenziale melodico, con una sorprendente e scenografica coda strumentale. Dopo la pausa contemplativa di Endling, dove ascoltiamo solo il pianoforte atmosferico di Pat Goodwin, i formidabili due minuti e mezzo di Rosalie - con l'incipit dimesso, l'inusuale schema tripartito e il crescendo inesorabile e quasi inatteso del finale (e qui siamo davvero dalle parti dei migliori New Pornographers) - fanno di nuovo alzare dalla sedia. E non ci si siede più: Treat Jar con la sua sfrontatezza da hit college rock anni '90 tiene alti i giri. Human Condition, con la sua costruzione franta e multicentrica ricorda le prime cose dei Great Grandpa. Split Up The Kids racconta in una dimensione folk ipnotica e commovente una parabola sul tempo che passa (la penna è quella, ispiratissima, della bassista Carrie Goodwin). La conclusione - Mostly Here - non può che essere nuovamente affidata alle montagne russe emozionali di un episodio che ha l'ambizione di spingere la propria durata e i propri orizzonti spaziali ben oltre i sei minuti.
Album dell'anno, senza discussioni.
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