28 marzo 2024

Stillfilms - Souvenirs From Underground EP REVIEW

Se parliamo del dream pop del giorno d'oggi, sono abbastanza convinto che lo zeitgeist sia rappresentato soprattutto dai Blech Lab, con il loro ricercato mix di morbidezza e suggestione (ne abbiamo parlato ampiamente l'anno passato). E non a caso c'è un notevole fiorire, un po' ovunque, di band che puntano molto sulla pulizia formale, sulla perfetta dolcezza melodica e su chitarre che avvolgono morbidamente di echi. 

Tra queste band ci sono anche i losangelini Stillfilms, che da queste parti seguiamo - singolo dopo singolo - praticamente dagli esordi. Il gruppo guidato da Sophia Medina - non sembri una semplificazione, anzi è un complimento! - pare davvero la versione d'oltreoceano dei Blech Lab. 

Le atmosfere ritratte dai cinque pezzi dell'ep d'esordio (in realtà li conosciamo già) risplendono di un fascino notturno e di una grande eleganza produttiva, che trova una perfetta quadratura nel rotondo dinamismo delle ritmiche, nei ricami atmosferici delle chitarre e nel fascino vocale di Sophia. Drag Me Down, primo episodio anche in senso cronologico, vale già da solo il viaggio. 

22 marzo 2024

bedbug - pack your bags the sun is growing ALBUM REVIEW

La storia di Dylan Gamez Citron è molto "americana": di origini messicane, cresce nella periferia di New York, poi va a studiare a Boston alla Northwestern University - qui fonda il suo progetto bedbug (minuscola di rigore) - inizia quindi a lavorare come supplente a scuola, poi si trasferisce a Los Angeles dove ritrova la famiglia e vive facendo counselling. Tra un'attività e l'altra, l'attività musicale di Dylan è sempre stata più che altro una passione, tanto che i tre album precedenti a questo e marchiati bedbug erano sostanzialmente delle autoproduzioni casalinghe lo-fi, con una spruzzata di antifolk, una base di cantautorato indie di obliqua canonicità e una sferzata elettrica di garage pop. 
Pack your bags - titolo che sembra alludere al trasloco fra la Boston in cui a lungo ha vissuto e suonato e la nuova avventura californiana - è in verità il primo album di Dylan completamente registrato in uno studio e prodotto con una estesa cura dei particolari. Ed è un disco talmente bello, coinvolgente e poetico che, pur non essendo in realtà particolarmente tangente all'indie pop di cui ci occupiamo qui, sarebbe un delitto non parlarne.
Ascoltando le canzoni dei bedbug (c'è un band attorno a Gamez) la prima riflessione che viene in mente è quanto i Neutral Milk Hotel abbiano lasciato una scia lunga dietro il loro "Aeroplane over the Sea", visto che a quasi trent'anni di distanza quel mix di folk della tradizione, indie rock sghembo e torrenziale esigenza di racconto si ritrova in tanti artisti di oggi (ne citiamo uno: Kid Chamaleon, giusto per restare a Boston, anche nella sua seconda incarnazione chiamata fine.). Dylan Gamez Citron in fondo è l'ultimo di una lista lunga, ma ciò che colpisce, al di là di una originalità di ingredienti che non può né vuole esserci, è la sua capacità di scrittura così lirica e potente, che deve molto senz'altro al citato Jeff Mangum ma anche a Conor Oberst, a Waxahatchee, ai Death Cab For Cutie, ai Lemonheads, ai Sebadoh, a Sufjian Stevens, agli Sparklehorse e in definitiva all'universo indie dei '90. 
Le canzoni di bedbug sono insomma eredi di una tradizione, ma poi in definitiva possiedono una purezza originaria che vive e risplende di luce propria senza bisogno dei propri modelli. I dodici pezzi dell'album brillano di una delicatezza adorabilmente descrittiva, hanno un'anima acustica e programmaticamente stonata, ma nel loro parlare di stelle, autostrade, boschi in fiamme, trovano sempre un dinamismo incredibilmente a fuoco, perfettamente speculare al mood che comunicano, sempre suggestivo e cinematico nella loro (apparente) improvvisazione. Ma la successione stessa degli episodi, da The City Lights in giù, non ha in fondo così importanza: Pack your bags è nel suo complesso un album che va ascoltato come un unico ciondolante e vagamente ipnotico flusso di coscienza, un viaggio sia interiore che esteriore. 
Se vi piacciono gli artisti citati sopra, i bedbug sono il vostro nuovo gruppo preferito! 

16 marzo 2024

PIETRE MILIARI: Sambassadeur


Anna Persson è una ragazza di provincia. Linköping, la pigra cittadina piazzata giusto a metà fra Stoccolma e Göteborg in cui è cresciuta non è certo un prodigio di vitalità musicale alla fine degli anni '90, ma non è poi così diversa (né lontana) da quella Jönköping da cui un decennio prima erano decollati verso il mondo i Cardigans (che, sarà un caso, erano guidati da una cantante che con la nostra Anna condivide il cognome, Nina Persson).

In Svezia l'indie è un genere diffuso: la maggior parte delle band inglesi e americane un giro da queste parti se lo fanno volentieri, il pubblico è tanto composto quanto esperto, tanti hanno pure la loro piccola band amatoriale e si può dire che esista una "scena" in ogni città media o grande. Almeno una decina di label di tutto rispetto sfornano ogni anno dischi di gruppi di belle speranze che sognano di seguire la strada dorata dei Cardigans. L'indie svedese, si dice a inizio anni '00, è sul punto di esplodere (spoiler: non avverrà).

Quando si trasferisce per gli studi universitari a Skövde - il classico paesone dalle casette colorate, immerso nel verde paesaggio rurale svedese e popolato quasi esclusivamente da studenti - Anna è una delle tante ragazzine che ascoltano musica indie, con quello spirito onnivoro e innamorato della melodia che hanno tanti suoi coetanei scandinavi. Conoscere altri ventenni appassionati di musica non è certo difficile a Skövde, e infatti in breve diventa amica di due altri studenti che si chiamano Daniel Pernbo e Joachim Läckberg. I tre decidono di suonare insieme, mossi anche da una sensibilità che sembrano condividere a pieno: l'amore per tutto ciò che è catchy e gentile, elegantemente retrò e squillante di chitarre jangly. I primi tentativi (Anna canta con uno stile amabilmente algido che forse deriva dall'adorazione che ha nei confronti di Nico; Joachim suona le chitarre e Daniel la batteria) li convincono che ci vuole anche un bassista, e così scritturano un altro Daniel, che di cognome fa Tolergård. 


Nascono così i Sambassadeur. È il 2003 e di lì a poco i nostri lasceranno Skövde per basarsi ufficialmente Goteborg.

Il nome della band è un omaggio a un pezzo di Serge Gainsbourg, ma anche una dichiarazione d'intenti per una band che vuole suonare indie rock ma è innamorata tanto dei Teenage Fanclub quanto degli chansonnier francesi (Tolergård e Läckberg hanno fatto un semestre ad Avignone fra l'altro). C'è in giro anche una versione secondo la quale i nostri volevano chiamarsi Ambassadeurs ma il nome era già preso e così hanno aggiunto una "s", ma la spiegazione ha poco charme.

I Sambassadeur nascono come "band da cameretta", e un po' lo saranno sempre. Le registrazioni agli esordi sono praticamente dei demo, e il primo singolo Ice & Snow esibisce già nel suo dna tutta la poetica del gruppo. Una quieta contemplazione del mondo vista da dietro il vetro di una finestra (Seems like the word's still spinning round, 'cause the sun goes up and down, and when the early morning comes, it will be another one), perfettamente aderente al confortevole abbraccio della musica: il cembalo, le chitarre, il synth, la voce morbida di Anna, come una culla che ti accompagna in un'alba nordica. Una Sunday Morning sotto i cieli di ghiaccio della Svezia. 

E' il preludio al contratto discografico, che arriva in fretta e con la label indipendente più importante della Scandinavia, la Labrador Records, che nel delicato splendore dell'indie pop dei quattro deve avere intuito qualcosa di speciale.

E' il 2005 ed esce il primo EP della band, intitolato Between The Lines, come il pezzo che lo apre. Between The Lines è senza dubbio la signature song di tutta la carriera dei Sambassadeur: è il diorama dello stile di Persson e compagni e lo sarà sempre. Ed è semplicemente una delle canzoni più stupefacenti della storia dell'indie pop. La sensazione, come dagli esordi, è che ogni pezzo della band emerga come all'improvviso, senza introduzione, da una take casalinga che forse era in corso e che i nostri hanno deciso di tagliare con l'accetta. Due chitarre acustiche a cui poco dopo se ne aggiunge una elettrica con la sua punteggiatura jangly. Un basso gentile e pulsante. Il cembalo e il battito delle mani. La voce di Anna Persson che è un sussurro di miele. I cori che sembrano coperte calde. Le liriche da cui traspare una serena consapevolezza di essere diversi dalla massa e per nulla a proprio agio in mezzo agli altri, anche se proprio in quel momento sta suonando la tua canzone preferita (so i close my eyes, i'm focused on whatever's spinning in my my mind, and i try to find a sign, but i never learned to read between the lines). Ecco qua: i quattro ragazzi timidi di Skövde al primo tentativo hanno già scritto la loro perfect pop song, catturandola nell'aria come un'aurora boreale, così, senza alcuna perizia tecnica (che ancora non possiedono), senza alcun abbellimento produttivo. 


I tre altri pezzi dell'EP sono il riflesso sulla superficie ghiacciata di Between The Lines: la già citata Ice & Snow, la quasi dolente In The Calm, dove sentiamo per la prima volta la voce di Joachim (da qui in avanti si alternerà al microfono con Anna), l'inquieta Can You See Me, che pare un pezzo dei Broder Daniel (il più influente gruppo indie svedese dei Novanta, per chi non li conoscesse) in cui l'elettricità sembra però intrappolata all'interno. La cosa più post punk che Läckberg e compagni abbiano mai registrato. 

Ce n'è abbastanza per richiamare l'attenzione della critica, e parallelamente l'interesse della Labrador, che spinge per pubblicare il primo album del gruppo. Il metodo di registrazione e produzione tuttavia non cambia dagli esordi: in sostanza i Sambassadeur trasferiscono idealmente in studio (ancora a Skovde!) la loro cameretta virtuale (o viceversa!), senza fronzoli né particolari lavorazioni. E' l'anima sonora della band, e i quattro se ne sentono ancora profondamente custodi.

Sambassadeur, il disco d'esordio, esce il 1° giugno del 2005, e contiene le canzoni già pubblicate in precedenza. New Moon, il pezzo che lo apre, è di per sé una perfetta carta d'identità dello stile peculiare della band: l'intreccio scampanellante delle chitarre, la vocalità di zucchero e neve di Anna Persson, la ritmica squadrata ed essenziale, le liriche che fanno sempre entrare una lama di luce estiva a riscaldare lunghi giorni d'inverno scandinavo (always waiting for something more to come, always waiting for the summer sun...). Da qui in avanti l'album è un florilegio di carillon di pigra dolcezza: One Last Remark con il suo mandolino, Sense Of Sound con il suo contrasto fra la scabra e spiraliforme trama dei synth e il calore cantautorale di tutto ciò che vi si deposita sopra, e poi quel cantilenante prodigio che è If Rain, con il suo incalzare folk e le sue tinnanti memorie byrdsiane. Siamo solo a metà, perché i nostri hanno in realtà lasciato i loro capolavori in fondo: l'elettricità sognante di Still Life Ahead (i Pains prima dei Pains, ma più che altro ricordi di Jesus & Mary Chain), l'ipnotico poetico incedere circolare di La Chanson De Prèvert (una delle cover di Serge Gainsbourg più intelligenti e ispirate mai fatte), la già citata Between The Lines, la commovente fragilità di Just Because Of You, la parentesi indie rock del tutto inattesa di Whatever Season, il sipario che si chiude su una piccola piece pop come Posture Of A Boy che sembra uscita da un disco dei Magnetic Fields. 


Diciamocelo: pochi in giro per l'Europa si sono accorti dello scrigno prezioso e scintillante che i Sambassadeur avevano confezionato, riempiendolo di tutte le cose che avevano concepito nei primi due anni di vita della band. Qualche recensore più coraggioso - c'era anche il sottoscritto tra questi - parlò di via scandinava all'indie pop, trovando in questa programmatica complicata semplicità una strada decisamente più nuova e interessante di quella percorsa da altre band più in vista del momento. Una strada che gruppi come Belle & Sebastian e Camera Oscura hanno già ampiamente tracciato e che ora ha bisogno di ritrovare l'anima. 

Negli anni a seguire Joachim e compagni mettono in cantiere qualche tour che non si allontana di molto dalla Svezia, sfiora il Regno Unito e non si sogna nemmeno di varcare l'Atlantico. Insomma, i Sambassadeur capiscono già di essere destinati ad essere una "band locale", con qualche aggancio permesso dalla fama continentale della label per cui incidono, ma niente più, e non sarà forse un caso che tra poco intitoleranno il loro album più ambizioso European (ci arriviamo). 

In ogni caso i quattro non si perdono d'animo, anzi: l'entusiasmo per ciò che stanno creando è talmente palpabile che ne scaturisce immediatamente un nuovo EP, intitolato Coastal Affairs, che contiene almeno una canzone che diventerà un "classico" della band, quella Kate che è fatta letteralmente di brezza e nuvole. Ma ci sono anche una splendida trina jangly dinamica e trascinante come Marie e la bella cover di Claudine dei maestri neozelandesi The Bats. 

Ma è già tempo per i nostri di tornare in studio, questa volta seguiti da un produttore di livello come Mattias Glavå, uno che ha lavorato con pezzi da novanta della scena svedese come il menestrello indie Håkan Hellstrom e i già citati Broder Daniel. Narra la leggenda che, durante le session di Migration - questo il titolo del secondo album, che esce il 1° gennaio 2007 - Glavå in realtà passò il tempo ad osservare la band alle prese con i suoi limiti tecnici, senza fare nulla di particolarmente incisivo. Tuttavia è indubbio che il passo in avanti (o di lato?) è davvero evidente a tutti i livelli: già l'iniziale The Park, che ci riporta nella cameretta dei Sambassadeur con la sua adorabile nursery rhyme, suona in realtà diversa rispetto al passato, pur mantenendo quasi inalterato lo spirito artigianale dei primi tempi. 

Subtle Changes si intitola in effetti la seconda traccia, ma non è proprio una cambio sottile quello a cui assistiamo: la voce di Anna è più rotonda e gli archi che irrompono allegri fin dal principio spalancano la porta ad un arrangiamento che strizza l'occhio per davvero agli ABBA e nel finale si permette persino l'incursione di un sassofono, pur restando prudentemente nella zona di confort consueta alla band. 


Ecco, Subtle Changes inaugura ufficialmente il "secondo periodo Sambassadeur", dove il primo è quello intimo, lo-fi, a suo modo magico e quasi improvvisato e questo invece promette una dimensione che insegue gli stilemi del pop scandinavo che tutti riconoscono non per imitarlo, ma per assorbirlo, per farlo proprio. E', da questo momento in poi, l'ambizione mai nascosta di Anna Persson e soci. 

Prendiamo un pezzo come That Town: quello che sarebbe stato timido e crepuscolare nel primo periodo (perché il cuore è assolutamente lo stesso), ora è articolato e in piena luce, ed è palese la preoccupazione della band di riempire ogni possibile vuoto con qualche intuizione produttiva. Non che ci sia un vero horror vacui - lo testimonia la bella cover di Dennis Wilson Falling In Love, che inverte i fattori rispetto all'originale - ma traspare senz'altro l'idea determinata di spingere sul pedale melodico e non di nascondersi dietro i delicati merletti autunnali di Sambassadeur. Sentite cosa canta Anna nella deliziosa Migration (a proposito, la sua diventerà ormai la voce quasi esclusiva del gruppo...): exploring areas all wandering will be enough for you, your mind is filled with all the smallest things, you've got an eye for details too, ... know you've been running, but i've been runnig too,  the only difference is you don't mind the waiting, i do. Al di fuori della metafora è una bella riflessione sul percorso del gruppo: siamo andati forse troppo veloci? D'ora in avanti i Sambassadeur, per loro stessa ammissione, preferiranno l'attesa e scriveranno due o tre pezzi all'anno! 

La critica non ha amato particolarmente Migration, specialmente se confrontato con il precedente: troppe cose attorno, insomma, e poco importa se la sorridente raffinatezza di una Final Say con le sue citazioni dei New Order è a suo modo geniale. O se l'ampio strumentale Calvi riesce dipingere su una tela impressionista un paesaggio marino di impareggiabile bellezza, ed è un'altra prova incontrovertibile della capacità della band di usare i propri strumenti in modo intelligente e sempre equilibratissimo.

A questo punto Anna, Joachim e i due Daniel decidono di "godersi l'attesa", come dicevamo sopra. Non smettono di scrivere, ma lo fanno con una lentezza risoluta e programmatica. L'intenzione non è quella di ritornare alla celebrata purezza degli esordi, ma di insistere sulla via imboccata con Migration, e anzi lavorare per rendere il suono della band ancora più pieno, elegante, corrusco e quasi barocco. Non c'è alcuna novità nei modelli di riferimento, che in sostanza collegano con un ponte ideale i '60 della California e dei girl groups e gli '80 della Sarah Records e della Creation: è il carburante dei Sambassadeur da sempre. Ma ritornati in studio con il solito Mattias Glavå dietro il vetro, i nostri decidono stavolta che il passo deve essere per davvero mosso in avanti, e con decisione. Dopo un lungo iato silenzioso, i quattro arrivano infatti già con delle idee di arrangiamento che si possono tranquillamente dire orchestrali, un po' Phil Spector e molto Bacharach. 

Nasce così European, terzo album della band, il suo più completo e ambizioso, probabilmente il suo più bello se lo teniamo in mano tutto insieme (non ci sono le canzoni leggendarie del primo, intendo: va ascoltato un po' come un concept) e se lo consideriamo oggi in modo retrospettivo. 

Stranded, il pezzo che apre, è veramente la cartina di tornasole di tutto il disco e non a caso sta lì per farci capire cosa hanno combinato Anna e gli altri negli ultimi tre anni. La melodia che sta in mezzo è la consueta caramella colorata à la Sambassadeur che ti implora di essere scartata. Ma la confezione è tutta nuova, sgargiante, magniloquente: la scenografica introduzione di pianoforte, la batteria quasi ipertrofica, gli inserti strumentali che mettono zucchero filato ovunque, il midtempo che sembra così eccitato da non riuscire a contenere l'entusiasmo, la dimensione che sfiora i cinque minuti nella sua studiatissima circolarità. E' l'idea dei quattro svedesi di "timeless pop": una macchina melodica che va a tutta come i motori del battello ritratto nella splendida copertina e che sembra aver lasciato decisamente indietro l'eterea introversione dei tempi di Skövde e delle registrazioni casalinghe. Lo studio offre potenzialità, la Labrador evidentemente ha concesso un buon budget, e i Sambassadeur si giocano la loro carta surfando sulla cresta d'onda della loro carriera, nel momento in cui si sentono davvero più ispirati. Vada come vada.


Tutta l'infilata iniziale di European è una corsa a perdifiato dentro un paesaggio sonoro floreale e spumeggiante: Days (ma quanto è bella l'orchestrazione archi e pianoforte che incolla le sue due parti!), I Can Try (una delle cose più catchy e leggere che i nostri abbiano mai scritto, dentro un'architettura quasi barocca), Forward Is All (una delizia acustica che insegue Nick Drake nelle spirali dei suoi archi), e poi quella meraviglia di racconto di formazione che è Albatross, che poi è la summa di tutta la poetica dei Sambassadeur concentrata in tre minuti di viaggio in mezzo a morbide onde di archi (I was happier alone, cut my hair just like a boy, now I do stay away from trouble and dealings, I leave it just to be what it is, just a memory... confessa Anna con la sua impassibile serenità: il tempo è passato e noi non siamo più gli stessi, non resta che l'abbraccio dei ricordi...). Qui le chitarre scompaiono e lasciano che sia la sezione ritmica a soffiare delicatamente nelle vele: è una scelta "strana" per una band dal cuore jangly, ma gli orizzonti sono ora talmente ampi che si perdono in lontananza. 

La metafora del viaggio pervade l'intero album, e quando la Persson canta once more we'll take the risk to fall nella successiva intima High and Low sembra quasi esplicitare la consapevolezza che i Sambassadeur si pongono una metà davvero distante da quelle a cui sono abituati: una concezione di pop che sappia essere una catarsi di ogni fragilità, imbastendo tanti fili in una trama variopinta e vistosa, ma al contempo sottile e quasi impalpabile. L'infinita fanfara spectoriana di Sandy Dunes vista da questa prospettiva rivela tutto il senso dell'operazione che i quattro svedesi hanno messo in piedi: una luminosa celebrazione della malinconia (a year is passed without a trace, without a sound), una festa pop in cui tutti i timidi possono finalmente trovare il coraggio di ballare (can't stop us now, you see we've only just begun, an everlasting sound, that's what it's all about). E' il climax dell'album, che poco dopo si scioglie nelle liriche vagamente misteriose di Small Parade: la fanfara in effetti è passata, e resta una inspiegabile inquietudine in una notte quieta (they're resting tonight, all right, a bit too different in sight) mentre la band torna a spogliarsi di tutti i vestiti indossati nel resto del disco. 

Per i Sambassadeur - i ritrosi gentili quattro ragazzi di Skovde - European è stata una faticaccia, costata anni di lavoro certosino e un enorme coraggio nel perseverare lungo un tragitto che non era precisamente quello che i fan della prima ora desideravano da loro. Doveva essere l'album della consacrazione ma non lo è stato. Difficile trovare in giro una critica negativa di un disco oggettivamente così bello, ma in realtà non è stato capito fino in fondo, cosa che deve avere fatto abbastanza male ai nostri, anche se sono troppo riservati ed educati per confessarlo.

Da qui in avanti i Sambassadeur rallenteranno così tanto la loro produzione che per arrivare al quarto album bisognerà aspettare sette anni, quando ormai molti si erano persino dimenticati di loro. Lo intitoleranno (auto)ironicamente Survival, e sarà in buona parte un ritorno alle radici jangle e folk degli esordi (Foot Of Afrikka, il pezzo che apre il disco, è una perla), con qualche synth di troppo e un'aria generale non del tutto convinta. 

Dal 2019 ad oggi non ho idea se Anna, Joachim e i due Daniel siano ancora al lavoro, restando fedeli alla loro media programmatica di uno o due pezzi all'anno, oppure stiano dedicando le loro vite ad altre cose. 

Quel che è certo è che i Sambassadeur, nella storia dell'indie pop, sono stati precisamente quello che si definisce una "hidden gem", il tesoro nascosto ai più, un piccolo prodigio destinato - un po' per volontà della sorte, un po' per volontà loro - a diventare un oggetto di culto per un numero ridotto di appassionati. E chissà in fondo se i quattro studenti di Skövde se lo sarebbero aspettati, di divenire i portabandiera di un genere in fondo tutto loro e difficilmente etichettatile, e soprattutto gli alfieri pop dei timidi di tutto il mondo. 

08 marzo 2024

Hanemoon - Rain Or Shine ALBUM REVIEW

C'era una volta, in Germania, una band chiamata Seaside Stars. Che poi in realtà era un duo, visto che i titolari erano Hans Forster e Andy Schuwirth. I Seaside Stars non soltanto suonavano jangly pop: erano jangly pop, nella sua accezione più rotondamente perfetta, orecchiabile, sorridente, luminosa. Fecero un paio di album, proprio all'inizio degli anni '00, quando se dicevi jangle ti venivano in automatico in mente i Teenage Fanclub, che allora erano all'apice della loro carriera ed avevano trovato la pietra filosofale indie pop mescolando Scozia e California. 

Dopo quasi due decadi è sempre un piacere ritrovare una delle due metà dei Seaside Stars, il berlinese Hans Forster, alle prese con la sua nuova band Hanemoon, che con questo Rain Or Shine è arrivata, se non conto male, al terzo album. 

Diciamolo subito per chiarezza: l'anima jangly, leggera e gentile, amabilmente twee di vent'anni fa è rimasta vivissima e immutata nella musica di Forster.

Ascoltate My Circle Line, il pezzo che apre il disco, e avrete la percezione che l'orologio scorra delicatamente all'indietro, mettendosi a bottega dei Teenage - che è il modello più evidente - ma con lo spirito libero di un Glenn Donaldson, per parlare di un pezzo grossi del genere, con l'entusiasmo dei The Boys Of Perpetual Nervousness, per citare degli altri maestri del genere, e persino con un'orecchio puntato alle cose più catchy di Elliott Smith. Nell'album troverete dodici canzoni di timida ma risoluta bellezza, dinamicamente midtempo e sempre in bilico verso una dimensione cantautorale. 

01 marzo 2024

TTSSFU - Me, Jed and Andy ALBUM REVIEW

E' già da qualche tempo che Tasmin Stephens ha iniziato a pubblicare singoli, raccolte di demo ed ep usando il moniker TTSSFU, alternando la sua attività solista a quella di chitarrista nei Duvet. Andando a ritroso nella sua produzione precedente, è evidente l'amore viscerale di Tasmin per il post punk più seminale, quello dei primi anni '80 per intenderci, mettendo in comunicazione le atmosfere tese dei Joy Division, quelle goth dei Cure e la sfumata eleganza dei Cocteau Twins, unendole a stilemi invece più caratteristici dello shoegaze /dream pop di inizio '90.  
L'ep intitolato The Body del 2022 ne metteva già in luce - una luce algida e baluginante, intendiamoci - il talento notevole, in una dimensione che era ancora decisamente sperimentale e poco immediata. Con singolo At All, uscito sullo scorcio dello stesso anno, Tasmin mostrava un'apertura diversa, più ariosa e maggiormente nelle corde del pop obliquo e squadrato di Jesus & Mary Chain, proseguita più o meno con i pezzi pubblicati da quel momento in avanti (lo splendido e atmosferico  Yeah Yeah I Do ad esempio).

Me, Jed and Andy, primo mini album di TTSSFU, è assolutamente la prova della maturità per Tasmin, ed ha in più l'ambizione di sviluppare un concept attorno alla relazione fra Andy Warhol e Jed Johnson, il designer che visse con l'inventore della pop art negli ultimi suoi anni (Andy e Jed campeggiano nella bella copertina insieme a Tasmin). 

L'idea di post punk di notturna morbidezza cui ci ha ultimamente abituato la musicista mancuniana arriva alla sua pienezza nei sette pezzi del disco, partendo dai toni più oscuri di I Hope You Die e Jed e trovando a poco a poco una sua perfetta essenziale dinamica dream pop con la delicata e sfrigolante Baggage, con la solennità ipnotica alla New Order di Character, con la soffusa eterea raffinatezza di Asexual, e soprattutto con la forza avvolgente di Wait It Out e la sua trina di chitarre. In chiusura, la sontuosa Studio 54, che evoca davvero il fantasma di Warhol in una dimensione parallela dove voci e strumenti si fondono in una sognante onda sonora.