31 agosto 2017

The Hayman Kupa Band - The Hayman Kupa Band [ALBUM Review]

Darren Hayman è un musicista che non ha bisogno di presentazioni. E', semplicemente, un genio, nel bene e nel male, nei capolavori che ha lasciato con gli Hefner e da solista, e anche nei tanti passi laterali (per non dire falsi) che ha compiuto nella sua prolificissima carriera. 
Emma Kupa, per chi non la conoscesse, è la leader di quei Mammoth Penguins che un paio d'anni fa ci hanno esaltato con quell'inatteso gioiellino pop-punk intitolato Hide And Seek.
Già da qualche anno i due musicisti inglesi hanno cominciato una collaborazione che, finalmente, dopo mesi di annunci ed assaggi è arrivata ad un album inestato alla The Hayman Kupa Band.  
Per molti versi il matrimonio artistico fra Darren ed Emma è quanto di più naturale potesse accadere: entrambi possiedono lo stesso sorridente graffio cantautorale e la stessa capacità di tirare fuori dal cilindro grandi canzoni con una disarmante nonchalance
Emma Kupa ha oggi la esuberante freschezza che Darren aveva ai tempi gloriosi degli Hefner, e in definitiva si può ben dire che la collaborazione ha fatto bene soprattutto a lui, a giudicare dalla bontà diffusa del materiale che i due hanno concepito a lungo e registrato in tre giorni di sessions. 
Fin dall'iniziale, ampia e narrativa Let's Do Nothing e poi attraverso episodi di intelligente immediatezza come No More Bombs e Over's Not Overdue, si snoda un percorso che, pezzo dopo pezzo, sembra muoversi da un indie energico verso un folk di essenziale e disarmante tenerezza (da We Can Get By a Pretty Waste Of Time e Reach Out), dove Darren ed Emma si alternano e si intersecano regalando l'impressione di una magnifica improvvisazione. Titoli di coda su una And The We Kissed che è hefneriana fino al midollo e non può non lasciarci con un sorriso stampato sul volto. 



27 agosto 2017

Japanese Breakfast - Soft Sounds From Another Planet [ALBUM Review]

A un anno di distanza da un debutto "importante" come Psychopomp - che era un piccolo ma curatissimo album sulla morte e gli affetti familiari - torna Michelle Zauner con la sua opera seconda, che raddopia durata e ambizioni. Se è vero che Soft Sounds From Another Planet nasce come "science fiction musical", qualsiasi cosa voglia dire, o come concept album su un diffuso desiderio umano di evadere dalle ristrettezze terrestri, è chiaro che Japanese Brekfast questa volta punta in alto. 
Fin dall'iniziale lunghissima e ipnotica Diving Woman, il suono orchestrato dalla Zauner si tinge di elettronica umanistica (e lo farà ancora qua e là in alcuni episodi, soprattutto nello straniante tripudio quasi disco di Machinist), ma alla fine dei conti l'attitudine cantautorale della musicista americana emerge sempre, facendosi strada fra le pieghe di arrangiamenti che imbastiscono architetture complesse di chitarre e synth. 
Fin dagli esordi la cifra particolare della Zauner è in effetti propria questa convivenza fra immediatezza e complicazione, fra momenti di esaltazione melodica e divagazioni atmosferiche. Personalmente, l'impressione è che, dopo un inizio piuttosto confuso,  l'album trovi il proprio focus solo a partire dal quinto pezzo, quello che dà il titolo a tutto il lavoro, proprio quando la Zauner rimette mano all'anima indie e chitarristica delle sue canzoni. Da qui in avanti è un'infilata di grandi canzoni di energica delicatezza, dal romanticismo senza tempo di Boyish alla forza essenziale alla Waxahatchee di 12 Steps, dalla rotonda inquietudine di The Body Is A Blade all'intimismo acustico e fortemente emozionale di This House


23 agosto 2017

Stutter Steps - Floored [EP Review]

"Musica dal Museo Andy Warhol" dichiara in modo sibillino la pagina Bandcamp degli Stutter Steps. Al di là di ogni legittimo omaggio al mentore dei Velvet Underground, è un'affermazione oggettiva, considerato che Ben Harrison, a cui la band è intestata, è il curatore del succitato museo a Pittsburgh. 
A giudicare dalle sei canzoni di questo Floored, Harrison deve essere un talento multiforme, visto che i suoi Stutter Steps hanno dato vita ad uno dei migliori dischi indie pop dell'anno. Fin dal pezzo iniziale, che dà il titolo a tutto il lavoro, siamo accolti da un florilegio di chitarre jangly, che ci accompagneranno lungo tutti gli episodi dell'EP, alternando sapientemente gli uptempo e i ritmi più distesi. Le voci di Ben e di Cindy Yogmas, capaci di fondersi con delicata perfezione, sono l'altro plus della band di Pittsburgh, e in pezzi come la sognante Identical Eyes ricordano la dilatata gentilezza dei primi Mojave3. 
C'è senz'altro un lascito velvetiano nella musica di Harrison (c'è nel 90% dell'indie, in verità, e senza dubbio qui c'è una disposizione narrativa delle liriche che ha imparato la lezione di Reed), ma l'attitudine dei suoi Stutter Steps è decisamente orientata verso l'estetica C86 e l'indie pop sornione della epopea Flying Nun (Weak Restraint e la conclusiva Encino fanno molto The Bats), con quel misto di ruvidezza artigianale e melodia che non può che piacerci. 
Un piccolo grande disco da scoprire, onesto e coinvolgente. 



19 agosto 2017

Star Tropics - Lost World [ALBUM Review]

All'interno della scena indie-pop, lo sappiamo bene, c'è una grossa fetta di band che potremmo definire "nostalgiche", dove la nostalgia si declina in un'attitudine artistica che, in modo più o meno spinto, tenta di ricreare il suono, le linee melodiche, l'immaginario intero di un'epoca passata. Nel caso nostro - non c'è bisogno di indovinare - parliamo del decennio a cavallo tra '80 e '90, l'era in cui il post punk imboccò la via gentile dela Sarah Records e gli Smiths consegnarono sè stessi ai posteri come modello indie (in)imitabile. 
Tutta questa introduzione per dire che gli Star Tropics probabilmente fanno parte del partito della nostalgia, ma anche per dire che non sempre uno sguardo retrogrado comporta una minor freschezza, anzi. Lost World, che è il disco di debutto della band di Chicago, vive in effetti di questa perfetta ambivalenza: non c'è canzone nel lotto che non abbia consapevolmente i piedi ben piantati in "quel" particolare modo di fare indie pop (c'è una canzone che si intitola Another Sunny Day, e credo che gli appassionati del genere abbiano già colto), però al contempo, dopo l'aereo preludio strumentale di Windfall, già dalla squisita Lost World si spalanca un delicato quanto vitale mondo di chitarre jangly, ritmi timidamente uptempo, voci femminile e maschile che si incrociano e alternano, melodie di dinamica immediatezza. Insomma, tutto quell'armamentario che conosciamo a memoria ma di cui non possiamo fare a meno, e che in pezzi di essenziale rotondità come All The Way To Heaven, Sparrow, Wildfire, Summer Rain funziona davvero a meraviglia. 
Consigliato.Non solo ai nostalgici...

15 agosto 2017

Waxahatchee - Out In The Storm [ALBUM Review]

Arrivata al quarto album, e a due anni di distanza da quell' Ivy Tripp che le ha permesso di salire sugli scudi della critica e di diventare "la cantautrice indie del momento", non era certo facile per Katie Crutchfield venire incontro a delle aspettative divenute al limite dell'ingestibile. Teniamo conto che, quasi ad ogni nuova singer-songwriter dal suono un po' sporco affacciata sulla scena negli ultimi tempi, non c'è recensione che non abbia utilizzato il fatidico paragone con Waxahatchee (niente di speciale comunque: è già successo con Cat Power e con altre cantautrici che hanno sfondato). 
Bene, Out In The Storm - che già dal titolo forse suggersice qualcosa - dimostra che Katie se ne è fregata di chi le chiedeva un nuovo Ivy Tripp, ed ha confezionato invece un album beve, compatto, diretto, a tratti quasi aggressivo. Non ci sono le nebbie del disco precedente, da cui emergevano pezzi memorabili quasi senza che l'ascoltatore se ne accorgesse, a metà tra folk e indie rock: la quasi totalità degli episodi del nuovo album definiscono un suono rock di una misurata rudezza, lontano dal lo-fi degli esordi, ben prodotto, temperato giusto da un paio di numeri atmosferici (Recite Remorse) e acustici (Fade, splendida, e la strappacuore A Little More). Tutto molto potente, forte di quell'urgenza espressiva che è la cifra artistica peculiare della Crutchfield ("You let me take my own damn car to Brooklyn, New York, U.S.A." setenzia sferzante nell'arrabbiata 8 Ball) . Tutto molto efficace, con alcune canzoni che spiccano decisamente per elettricità ed energia: gli schiaffi in piena faccia dell'iniziale Never Been Wrong, il pop-punk liscio di Silver, la solenne introversione di Sparks Fly, la vigorosa immediatezza di Brass Bean, zenith ideale dell'album, il ritornello killer che emerge dalle brume di Hear You
Nel complesso, insomma, un album molto più "facile" rispetto al passato, ma solo all'apparenza. 
Consigliata la versione deluxe, che contiene tutti i pezzi anche in versione demo.