A un anno di distanza da un debutto "importante" come Psychopomp - che era un piccolo ma curatissimo album sulla morte e gli affetti familiari - torna Michelle Zauner con la sua opera seconda, che raddopia durata e ambizioni. Se è vero che Soft Sounds From Another Planet nasce come "science fiction musical", qualsiasi cosa voglia dire, o come concept album su un diffuso desiderio umano di evadere dalle ristrettezze terrestri, è chiaro che Japanese Brekfast questa volta punta in alto.
Fin dall'iniziale lunghissima e ipnotica Diving Woman, il suono orchestrato dalla Zauner si tinge di elettronica umanistica (e lo farà ancora qua e là in alcuni episodi, soprattutto nello straniante tripudio quasi disco di Machinist), ma alla fine dei conti l'attitudine cantautorale della musicista americana emerge sempre, facendosi strada fra le pieghe di arrangiamenti che imbastiscono architetture complesse di chitarre e synth.
Fin dagli esordi la cifra particolare della Zauner è in effetti propria questa convivenza fra immediatezza e complicazione, fra momenti di esaltazione melodica e divagazioni atmosferiche. Personalmente, l'impressione è che, dopo un inizio piuttosto confuso, l'album trovi il proprio focus solo a partire dal quinto pezzo, quello che dà il titolo a tutto il lavoro, proprio quando la Zauner rimette mano all'anima indie e chitarristica delle sue canzoni. Da qui in avanti è un'infilata di grandi canzoni di energica delicatezza, dal romanticismo senza tempo di Boyish alla forza essenziale alla Waxahatchee di 12 Steps, dalla rotonda inquietudine di The Body Is A Blade all'intimismo acustico e fortemente emozionale di This House.
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