30 gennaio 2025

Little Oso - How Lucky To Be Somebody ALBUM REVIEW


C'è una canzone, nascosta proprio al centro del primo album dei Little Oso, che si intitola The Frogs Sing For No Reason ed è, nel suo genere, un piccolo delizioso capolavoro. Nascosta, perchè in tutta la prima parte del disco la band di Portland, Maine - che ha già in passato dimostrato di avere talento, misura ed un tocco di obliqua e intelligentissima delicatezza - suona sempre quasi in punta di piedi, con una morbidezza jangly apparentemente un po' svagata che difficilmente risulta davvero immediata. 

I primi quattro pezzi dell'album servono allora soprattutto a familiarizzare con la voce di miele di Jeannette Berman, che possiede una risoluta tenerezza e si deposita sempre alla perfezione sulla trina di chitarre che le fluttua attorno.

Poi qualcosa nel disco cambia: la già citata canzone sulle rane - che in realtà è una bizzarra, geniale e onirica canzone d'amore - esplode con la spontanea naturalezza di cui sono capaci di solito soltanto i grandi dell'indie pop, centrando un ritornello che ti si appiccica addosso e ti rinfresca come una brezza primaverile.

E di seguito, che nemmeno te lo aspetti, arriva un altro gioiellino come Tendril Thougths, che ha questo pazzesco mix fra un'anima twee che sembra uscita dal catalogo della Sarah Records e un'ossatura elettrica, (quasi) vigorosa e decisamente catartica ("i won't disappear, ill be free, ill be free" grida Jeannette con una forza gentile che è commovente). 

E non è finita, perchè con la successiva Other People's Lives i Little Oso puntano ancora più in alto, abbandonano ogni timidezza e sfoderano uno dei pezzi dream pop più emozionanti che si sentivano dai tempi dei Night Flowers, con un testo che costruisce ottimismo a partire dalla vita reale ("we could build a good life") e i pedali delle chitarre che aprono finalmente alle distorsioni. Con una pulizia di suono ed un dinamismo complessivo tra le parti che ha del miracoloso. 

La cosa interessante è che dentro How Lucky To Be Somebody sembra davvero di leggere una sorta di climax emozionale, che a partire da una dimensione "da cameretta" esce a poco a poco all'aperto e si mette a correre respirando a pieni polmoni. E' senz'altro questa la via al dream pop dei quattro di Portland: una esperienza che esibisce chiaramente un lato intimistico e cantautorale (le liriche sono davvero sempre argute) e lo sublima a poco a poco verso un'elettricità libera e luminosa che guarda sempre in alto (con Stardust siamo dalle parti dei The Bue Herons) e allude pure senza paura ai Jesus & Mary Chain (la conclusiva Ruski's, dove sentiamo anche la voce di Ricky Lorenzo, è una piccola Just Like Honey). 

Che dire di più? Difficile chiedere di più per chi è appassionato del genere. Siamo davanti ad un album di grandissima maturità, che cresce ascolto dopo ascolto proprio perchè si fa scoprire un poco alla volta. Un album che, un po' a sorpresa, proietta i Little Oso nell'Olimpo dell'indie pop di oggi. 

26 gennaio 2025

Kosmos na Potolke - И з​д​е​с​ь​, и с с​о​б​о​й ALBUM REVIEW

Credo che tutti abbiate visto il film Lost In Translation. Sofia Coppola aveva scelto in modo sorprendente e intelligentissimo di filmare Tokyo con una colonna sonora interamente shoegaze e dream pop. L'idea era probabilmente quella di raccontare una vicenda di incomunicabilità (linguistica, culturale, esistenziale) con una musica dolce e insieme distorta, che poteva generare un effetto di affascinante contrasto con l'ordine asettico della capitale giapponese.

Da allora nel nostro immaginario il Giappone è un po' una patria ideale del dream pop (penso anche al video di Glow In The Dark dei Night Flowers), anche se in verità non mi risulta che un genere così di nicchia sia più diffuso in terra nipponica rispetto ad altre parti del mondo, per quanto abbiamo spesso parlato con entusiasmo di ottime band giapponesi.

Fatto sta che una band dichiaratamente dream pop come i Kosmos na Potolke, quando hanno deciso rapidamente di lasciare la natia Russia in seguito allo scoppio della guerra, ha scelto di trasferirsi proprio a Tokyo, senza avere particolari ganci da quelle parti se non qualche musicista che conoscevano e già stava da quelle parti. 

Vika Frolova e Ilia Kanukhin vivono in Giappone dal 2022 e lì hanno continuato a fare la musica che facevano prima, ovvero un guitar pop venato di psichedelia elettrica, dalla forte propensione melodica e scenografica, con liriche interamente in lingua russa (che, tra parentesi, ha una morbidezza perfetta per il genere), che potrebbe assomigliare a quello che suonano tanti gruppi scandinavi (i Kindsight, gli Holy Now...), ma anche ai Say Sue Me. 

La leggerezza di tocco dei Kosmos na Potolke ("cosmo sul soffitto" la traduzione: trovatemi un nome più shoegazer di questo!) si è affinata in questo loro terzo album, il primo "giapponese" della loro carriera, che mette insieme con grande abilità e piacevolezza un'anima post punk ed una decisamente più immediata e catchy. Un pezzo come Целую, con la sua spontanea propulsività, trasmessa in modo perfetto dalla naturalezza vocale di Vika, la sua struttura per nulla scontata e la sua micidiale compattezza, può servire come passaporto della musica del gruppo russo. Così come le super orecchiabili Колдхарт e привет.

Ma i nostri sanno essere efficaci ed eleganti in tutti gli episodi del disco, portando avanti un approccio che riesce a dare uno sfondo sognante ad ogni pezzo con una grande economia di mezzi, senza quasi utilizzare i synth e lavorando invece moltissimo sull'intreccio delle chitarre e del basso e sulla scrittura, offrendo spesso una via al dream pop talmente essenziale da uscire forse dai contorni del genere, se non fosse per episodi come la spiraliforme холодно e il morbido e sfumato pezzo conclusivo, che rientrano maggiormente nei canoni. 

L'album è bello, così come lo sono i due precedenti (gli album "russi"), che vi invito a recuperare. Davvero una bella scoperta!  

22 gennaio 2025

Prism Shores - Out From Underneath ALBUM REVIEW


Ci sono delle band che sono talmente innamorate della galassia indie pop da riuscire a far proprie molte sfaccettature del genere e trasformarle in uno stile che sia personale. Spesso sono le migliori e i nomi sicuramente li conoscete già.

Forse però non conoscete i Prism Shores, che sono di stanza a Montreal ma hanno origine a Charlottetown (nell'Isola Prince Edward, quella di Anne with an E, ma è anche la culla dove hanno mosso i primi vagiti gli Alvvays!). 

Out From Underneath è il loro secondo album (il primo, Inside My Diving Bell, è del '22) e, come anticipavamo poc'anzi, è un piccolo caleidoscopio - non a caso il loro nome cita il prisma - dentro il quale, se guardate con attenzione, appaiono in trasparenza le tracce di centro altre cose, dal mondo Sarah Records al jangly pop di oggi (un po' Quivers, un po' Kindsight), dalla Flying Nun ai J&MC, dai Cure allo shoegaze, dall'indie americano dei '90 a un certo cantautorato americano obliquo ed elettrico, e l'elenco potrebbe continuare.

La fitta e scampanellante trina di chitarra che apre Overplayed My Hand già dovrebbe bastare a legarvi mani e piedi e trascinarvi dentro il mondo dei Prism Shores. Il ritmo è delicatamente uptempo, la voce spontanea e molto lo-fi di Jack MacKenzie è sempre leggermente sovrastata dallo scintillante e morbido muro elettrico che la band erige a poco poco, la linea melodica è di efficace semplicità.

La ricetta della band canadese è sostanzialmente questa, e trova la sua quadratura nelle sottili variazioni fra un episodio e l'altro e in soluzioni sonore peculiari che di volta in volta catturano l'attenzione. Facciamo qualche esempio: l'onda di distorsione che sottende la deliziosa Southpaw (così come i bellissimi cori di KT Laine); e poi l'elettrica e puntiforme rotondità di quella piccola perfect indie pop song à la Lemonheads che è Tourniquet; e ancora la voce di Jack che sembra trasformarsi a poco in quella di Robert Smith nella meravigliosa, emozionante, romanticissima Killing Frost; o le irrequiete dissonanze di una Weightless, che pur essendo il pezzo più ruvido del lotto (dalle parti dei Guided By Voices per intenderci) conserva una sua tenerezza twee. 

I dieci pezzi dell'album scorrono via fluidi con la loro perfetta commistione di graffi e carezze, tanto che quando si arriva alla soffice superficie jangly e sognante di Drawing Conlusions e alla lunga coda sfrigolante di Unravel quasi quasi si rimane delusi perchè il disco è già finito. 

L'osservazione che mi viene da fare in conclusione è che sembra davvero strano come una band così talentuosa, così capace di costruire la propria personalità giocando sui contrasti e i rimandi, sia rimasta finora tutto sommato nel sottobosco dell'indie pop, quando meriterebbe di avere tutti i riflettori addosso. 

Il primo grande album del 2025. 


17 gennaio 2025

Ex-Vöid - In Love Again ALBUM REVIEW

A poco più di due anni da quel gioiellino che era Bigger Than Before, tornano gli Ex-Voïd di Lan McArdle e Owen Williams con un album che sembra davvero riprendere un secondo dopo rispetto a dove era terminato il precedente. 

La band di stanza a Londra, nata dalle ceneri dei Joanna Gruesome, è una delle grandi certezze della scena indie pop britannica e - in modo del tutto simile a gruppi che da queste parti amiamo incondizionatamente come Martha, Fresh, Happy Accidents, Hamburger, Me Rex, Fighmilk o Mammoth Penguins - suonano in modo dannatamente rumoroso e programmaticamente melodico. 

Se la splendida simbiosi delle voci dei due cantanti è forse il marker stilistico più evidente degli Ex-Vöid, ce ne sono sicuramente altri due che agiscono alla perfezione: uno è senz'altro è senz'altro l'ironia leggera che innerva ogni loro pezzo rendendolo immediato e piacevolissimo; l'altro è la capacità di giocare piccole variazioni tra un episodio e l'altro dell'album, offrendo delle tinte di genere diverse che rendono il tutto molto più eclettico e interessante.

Swansea, il pezzo che apre il disco con una sferzata di sorridente energia, è già di per sé un'ottima fotografia della musica degli Ex-Vöid: propulsiva, intelligente, punk nelle corde e profondamente pop nell'anima. Le liriche sembrano suggerire una bizzarra storia di amore, stalking e Galles (you are finally back in Swansea, and you have claimed you're still in love with me, but we both know that if you loved me you still be back in England), che poi idealmente continua con il poderoso power pop di In Love Again

Con la successiva deliziosa July i watt si abbassano ed entriamo decisamente in un mood melodico che sembra appartenere tanto ai Big Star quanto ai Teenage Fanclub (quindi a entrambi), il che è probabilmente la principale novità di In Love Again rispetto al disco di debutto: gli angoli si smussano volentieri, le chitarre si fanno jangly, tutto è perfettamente luminoso. Stesso discorso che si può fare per la super catchy Nightmare, che rappresenta veramente l'idea (power) pop degli Ex-Vöid in purezza: un efficacissimo mix di vigore e tenerezza che sovrappone acustico ed elettrico con enorme nonchalance. 

Il distorsore torna protagonista con la Ride-iana Pinehead, per lasciare spazio al mosso eclettismo à la New Pornographers di Lonely Girls, dove si sente persino una chitarra spagnoleggiante che tenta di scalare un possente muro di suono. Se Sara sembra uscita dall'album blu dei Weezer, Strange Insinuation è un'altra perla in puro stile Ex-Vöid: strofe che vanno sull'ottovolante e chitarre frizzanti che ricordano tantissimo i Beths. 

Siamo purtroppo quasi in fondo all'album, dove ci aspetta lo splendido duetto di Down The Drain, che pare un pezzo dei Prefab Sprout in versione punk, e la ballata strappacuore (con finale a sorpresa) Outline, che scopre in modo evidente le radici folk cantautorali di Lan e Owen. 

Serviva la conferma che gli Ex-Vöid sono una delle band più interessanti del panorama di oggi? Probabilmente no, anche perchè parliamo di musicisti che hanno un curriculum lunghissimo. In Love Again in effetti non solo conferma la bravura (di scrittura, ma anche di produzione) dei londinesi, ma mostra una notevole evoluzione verso un'idea di guitar pop che rinuncia ormai quasi del tutto agli spigoli e lavora sempre di più sulle canzoni. 

10 gennaio 2025

Vein Blue - Far Away EP REVIEW

Confesso di avere scoperto la produzione di RJ Mares, musicista di Los Angeles che usa il moniker Vein Blue per il suo progetto, solo di recente. E al contempo confesso di non sapere assolutamente nulla di ciò che sta dietro ai dischi (un pugno di ep in sostanza) che ha pubblicato nell'ultimo decennio - la maggior parte nell'ultimo anno.

L'unica cosa di cui sono certo è di essermi imbattuto per caso in una delle migliori band (se poi è una band) del panorama dream pop di oggi, il che mi ha spinto con entusiasmo ad ascoltare anche le cose più vecchie (che vecchie poi non sono).

I sei pezzi di questo Far Away EP sono davvero una splendida e fascinosa fotografia della musica di Vein Blue, raffinatissima nei suoi toni virati seppia e al contempo così luminosamente leggera e avvolgente. 

Feel It, il brano che apre l'ep con le sue spoken words, è già di per sé un piccolo prodigio con le sue chitarre post rock che a poco a poco si arrampicano lungo un crescendo trascinante e catartico. 

Con la successiva The Real You invece ci tuffiamo a bomba dentro uno sfrigolante mare dream pop / shoegaze nel quale piacevolmente ci immergiamo fino alla fine del disco. La voce femminile è delicata e dolcemente distorta e si fonde con il paesaggio elettrico circostante come ci si aspetta che avvenga, e lo fa con l'eleganza degli Slowdive, il piglio melodico kawaii di tante band asiatiche di cui parliamo da queste parti e l'attitudine sonora di un altro asso californiano come Castlebeat. 

A dispetto però di una tendenza alla dilatazione dei tempi tipica del genere, le canzoni di Vein Blue - con l'unica interessante eccezione della acustica Keep Up With Me, che profuma di Mazzy Star e si allontana dall'elettricità fluttuante del resto del disco - mantengono una compatta sintesi di due-tre minuti, con una ortodossia indie pop originaria alla Jesus & Mary Chain. 

Le stesse osservazioni si possono fare anche per gli ottimi ep precedenti, che mostrano ancora quel misto di ipnotica contemplazione e di energetico wall of sound che sembra essere il vero marker dello stile di Vein Blue. Se vi è piaciuto questo Far Away, correte a recuperarli tutti!  

04 gennaio 2025

Quiet Houses - Carried Away EP REVIEW

Non c'è dubbio che la Scozia sia una delle patrie ideali dell'indie pop. Non si contano davvero le band e gli artisti che hanno mosso i loro passi da quelle parti, spesso con in comune un amore per la melodia in grado di attraversare stili molto diversi tra loro. 

Jamie Steward e Hannah Elliott, che sono originari di Edimburgo e fanno musica insieme da quando erano giovanissimi, forse inconsapevolmente hanno anche quell'eredità musicale sulle spalle, e sicuramente nel loro dream pop di raffinatissima delicatezza c'è un'anima catchy e gentile molto "scozzese", di chiara matrice folk, in grado di illuminare ogni loro canzone.

Nei due ep pubblicati nel '21 e nel '23 (Since July), i Quiet Houses avevano già ampiamente dimostrato di percorrere una strada personale, incentrata sulla voce splendida e magnetica di Hannah e su un "pop touch" che potrebbe stare a metà fra la nostalgia per gli eightiees di Hatchie e le aperture scenografiche dei Bleach Lab, con una finestra laterale su paesaggi acustici / cantautorali sempre spalancata. 

Carried Away, ep numero 3 della loro carriera, segna una ulteriore maturazione del duo scozzese, non solo nella potente capacità di scrittura (tutti i cinque pezzi sono terribilmente catchy) ma anche in una cura formale che riesce sempre a trovare densità, sfaccettature e leggerezza. 

Hannah e Jamie sanno come si scrive una canzone pop e qui ce ne sono alcune - What My Heart Is For e New Ossession in testa, ma anche la morbidissima e sognante Carried Away - intessute di synth, dinamiche e luccicanti, programmaticamente piacevoli, che non ci meraviglieremmo di trovare nella colonna sonora di qualche film o serie tv romcom. Se il lato folksy è assicurato dall'intima e avvolgente Fact and Figures (siamo dalle parti di Phoebe Bridgers), la conclusiva Call You Later, con i suoi elegantissimi layers di chitarre, voce e synth, mostra in modo definitivo quanto i Quiet Houses maneggino con assoluta ed efficacissima naturalezza la materia (dream) pop, imprimendo la loro signature. 

Disco migliore per iniziare il 2025 non avremmo immaginato.