Nel panorama indie pop, i Quivers da sempre fanno categoria a sé. I motivi sono diversi: non assomigliano a nessun altro gruppo in particolare, hanno dei riferimenti differenti dalla media dei gruppi che trattiamo da queste parti ('80 e '90 sì, ma poco britannici e molto americani: parliamo di una band che ha pubblicato un'intera rivisitazione personale di Out Of Time dei REM) e probabilmente da un punto di vista tecnico sono davvero una spanna sopra chiunque. Probabile che non sia nemmeno indie pop quello che suonano, almeno non come lo intendiamo di solito: però sono senz'altro indie e sono sicuramente pop.
A tre anni di distanza da quello scrigno di meraviglie che era Golden Doubt, i quattro musicisti di Hobart, ora di stanza a Melbourne, tornano con dieci canzoni nuove che risplendono di quello stesso magico mix di gentilezza (quasi timidezza) melodica e ambizione radiofonica. Pitchfork, che ogni tanto ha delle intuizioni, ha scritto che i Quivers sono dei Go-Betweens che vorrebbero suonare al Coachella: è una definizione ruffiana ma per nulla lontana dalla realtà, perché la band australiana ha veramente un'aura di fascino tanto indiscutibile quanto difficile da spiegare.
Il plus della band è, fin dagli esordi, la sua capacità di alternare e intersecare le voci: tutti - Sam, Bella, Holly e Michael - cantano indifferentemente, tanto che è persino impossibile individuare un vero leader nel gruppo. Una spettacolare perizia vocale che si mette sempre al servizio di un songwriting che sa essere catchy prendendosi rigorosamente i suoi tempi e le sue dimensioni.
Ecco, veniamo al punto. Se cercate nei dieci episodi di Oyster Cuts una nuova You're Not Always On My Mind (diciamolo, sta ai Quivers come Yellow sta ai Coldplay) o una nuova When It Brakes (cioè la perfect pop song da manuale), i vostri desideri saranno delusi. Non c'è la stessa scampanellante e primaverile spensieratezza melodica in questi pezzi, ma se non vi scorrono i brividi giù per la schiena ascoltando i cinque soffici liquidi ipnotici meravigliosi minuti di Screensaver - una canzone che non ha bisogno di chorus e che è prima di tutto un'immersione emotiva à la The Cure - potete pure smettere di leggere queste righe.
Insomma, per il loro terzo lavoro Sam Nicholson e compagni hanno lavorato ai loro pezzi un po' come farebbero i Big Thief o i New Pornographers: non hanno allargato il cerchio a partire dall'hook orecchiabile, ma al contrario hanno fatto in modo da distillare da ogni struttura complessa dei chiari momenti di catchyness: un riff di chitarra ficcante, un inciso melodico che comincia a ripetersi, un'armonia vocale angelica e inattesa. In questo modo ovviamente le canzoni si allungano e hanno ritmi spesso medio lenti, ma al contempo diventano delle architetture raffinatissime che fanno entrare l'ascoltatore in punta di piedi e lo catturano dentro pareti che si espandono in continuazione (la lunghissima conclusiva Reckless in questo senso è l'esempio perfetto).
Se l'iniziale Never Be Lonely ha un peso specifico troppo alto per trascinare verso l'alto (e fa pensare più al cantautorato di Soccer Mommy che alle cose passate del gruppo), è con Pink Smoke che i nostri cominciano a parlare una lingua più pop e consona alle loro corde (l'impasto delle chitarre e delle voci è quello che ci aspettiamo dai Quivers e l'ampia fase strumentale è elegantissima), anche se manca il colpo d'ala. Stesso discorso si può fare per le successive More Lost e Apparition: tutto piacevolissimo e in una cornice di rock molto "classico", però non abbastanza per fare decollare il disco.
Una ballata piano-driven come Grief Has Feathers, con i suoi inserti di synth e il suo andamento confidenziale e vagamente obliquo, segna decisamente il mood di tutto l'album e rende evidente che non ci dobbiamo attendere alcun ritornello cantabile ma atmosfere più dense e malinconiche. Le stesse che troviamo nella splendida Oyster Cuts, dove la voce di Bella Quinlan si muove con grande delicatezza in un paesaggio dove sono ancora i synth a dominare.
Stilisticamente Oyster Cuts è un disco di rara coerenza: tutto sembra stare nello stesso orizzonte di sguardo, senza tentazioni di sperimentare cose diverse, né l'esigenza di "piazzare un singolo" forte, che infatti non c'è (potrebbe essere Fake Flowers, che pare davvero uno di quei duetti AC Newman - Neko Case, ma in definitiva anche qui non c'è quel gancio che ti tira davvero su). E' un pregio o un difetto? Qui sta all'ascoltatore decidere. Resta un punto fermo - come già abbiamo ampiamente ribadito: i Quivers sono una band di straordinario talento, e questo talento si legge persino dentro quelle che potrebbero sembrare delle mancanze. E Oyster Cuts è un album di equilibratissima bellezza.
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