25 aprile 2025

Moon In June - 色彩を持たないで ALBUM REVIEW


Dopo un album di debutto che un paio d'anni fa ci aveva davvero entusiasmato, i giapponesi Moon In June  arrivano oggi al "difficile secondo album" con lo stesso atteggiamento gioiosamente sfrontato che caratterizzava il loro esordio.

Miho e i suoi compagni di band sono innamorati in modo evidente e dichiarato di tutto quello che sta fra il dream pop delle origini (Lush), lo shoegaze più melodico (Slowdive), l'intera galassia brit pop dai Primal Scream agli Oasis, quindi per i cinque di Tokyo è facile infilarsi in una macchina del tempo musicale e sbucare fuori in UK dalle parti del 1994, frullando insieme tutto quello che sentono intorno in un'unico bicchiere super-energizzante pieno di zucchero, spezie e bollicine. 

Rispetto all'album precedente, che era pieno di canzoni molto "dritte" ed orecchiabili, qui i giapponesi alzano il tiro e affrontano la materia indie che conoscono così bene non come una delle tante band dream pop kawaii che depositano una voce femminile eterea su un flusso ordinato di chitarre (cioè quello che facevano, benissimo, agli esordi), ma con la scrittura intelligente e più eclettica di un gruppo come i Say Sue Me (prendete la grazia aerea e assoluta del pezzo che dà il titolo all'album - che, tra parentesi, significa "Non Ho Colore" - o il guitar pop delizioso di Warm British Winter Song). 

Insomma, ci sono meno hit potenziali in questo disco rispetto a quello passato, ma c'è tantissimo di più in termini di approfondimento dei modelli, di produzione (che è levigatissima e scintillante in ogni momento, con delle chitarre cristalline ed avvolgenti) e di ambiziosa capacità di imbastire pezzi che risultino immediati nonostante siano costruiti in modo quasi sempre molto complesso.  Con inoltre un coté english-pop (un po' Sundays diciamo) che ora più che mai sembra pervadere l'intero album e che si esplica in diversi episodi, mettendo in evidenza la voce di zucchero filato di Miho. E qualche momento di pura e semplice catchyness giapponese (Play!) che va felicemente sopra le righe. 

18 aprile 2025

Belljars - Belljars ALBUM REVIEW

Non sono riuscito a trovare in rete molte informazioni sui Belljars, se non che i cinque musicisti che formano la band sono basati a Lilla, in Francia, ed hanno fatto parte di altri gruppi della scena indie di quella zona: insomma, non sono dei novellini, e si sente.

L'album (o ep lungo che dir si voglia) che porta il nome della band è il loro debutto ufficiale ed è a mio parere uno dei più interessanti crossover fra post punk e dream pop che abbia ascoltato da parecchio tempo a questa parte. 

I sette pezzi del disco mettono al centro due elementi distintivi piuttosto evidenti: un impasto di chitarre pieno, liquido e dinamico di grandissimo effetto, e una voce femminile dalla forte personalità che sembra il vero punto catalizzatore della band.

Le atmosfere delle canzoni si muovono con equilibrio tra una delicata inquietudine dark che potrebbe ricordare i Cure (The Bell Jar e Mesmerized) ed un'aria più sognante e catartica (Doomsday è un piccolo capolavoro in questo senso!). 

Per certi versi l'idea musicale dei Belljars non è lontana da quella di una band che - come loro - incide per la tolosana Hidden Bay, ovvero quegli Healees che abbiamo ampiamente lodato l'anno scorso sia per la forza della scrittura quanto soprattutto per una cura formale (pure nella splendida grafica dell'album) che anche il gruppo di Lilla sembra curare in modo maniacale. 

Sicuramente una delle più interessanti scoperte di quest'anno! 

13 aprile 2025

Momma - Welcome To My Blue Sky ALBUM REVIEW

Il sodalizio artistico fra Etta Friedman e Allegra Weingarten va avanti ormai da almeno dieci anni. Le due musiciste di Los Angeles hanno pubblicato diversi dischi sotto il nome Mamma, e questo Welcome To My Blue Sky è, se conto bene, il loro quarto album. 

Da sempre le Momma si posizionano in quel nutrito novero di band che tengono vivo con entusiasmo l'indie rock americano degli anni '90. Nel caso del gruppo guidato da Etta e Allegra (con loro Aron Kobayashi Ritch e Preston Fulks), la ruvidezza slacker indie è ibridata con qualche pennellata sonica di shoegaze (l'interra architettura della furba e fascinosa I Want You parla questo linguaggio) e da una strizzata d'occhio pop (vedi il pezzo che dà il titolo all'album) che può fare riferimento a cantautrici rock più del passato (Sheryl, Alanis...) che del presente. 

Come già avveniva nei dischi precedenti, i pezzi si spartiscono in modo abbastanza equilibrato fra quelli che hanno un'anima maggiormente delicata, pur dentro una corazza più o meno spinosa, e quelli che costruiscono fragorosi muri di chitarre che ricordano da vicino il grunge-pop dei For Fighters (Last Kiss soprattutto). Gli episodi che stanno esattamente a metà (Rodeo, Stay All Summer, How To BreatheOhio All The Time) rappresentano forse il vero marker stilistico delle Momma, e ci immaginiamo che possano diventare dei potenti banger soprattutto dal vivo. 


06 aprile 2025

Great Grandpa - Patience, Moonbeam ALBUM REVIEW


Nel 2019 Four Of Arrows, secondo album dei Great Grandpa, aveva mostrato la fotografia di una band che sembrava avere talmente tanta ispirazione, tecnica e talento da potersi permettere qualunque cosa. Il gruppo di Seattle aveva messo perfettamente a fuoco uno stile peculiare che sapeva essere debitore tanto del mate rock quanto del folk, intimo e fragoroso al tempo stesso, potentissimo nella costruzione volutamente franta e scenografica di tutte le sue canzoni, che a tratti sfioravano il virtuosismo. 

Il 2020 ha ovviamente comportato un forte iato nella carriera della band. In più la cantante Alex Menne si è trasferita a LA per inseguire una carriera solistica, mentre Pat e Carrie Goodwin (l'anima creativa del gruppo) sono finiti in Danimarca, dove hanno messo su famiglia. Insomma, ce n'era abbastanza per mettere fine ai Great Grandpa, proprio all'apice della loro parabola artistica. 

Fortunatamente il desiderio di suonare insieme e di ricreare l'innegabile magia alchimia del gruppo ha prevalso, seppure con dei tempi lunghissimi.

Non nascondo che Patience, Moonbeam è forse il disco che ho aspettato con più ansia dai tempi del terzo degli Alvvays. Per parlarne, ho deciso di aspettare almeno il decimo ascolto, sia per metterlo oggettivamente in una giusta prospettiva, ma anche perchè semplicemente è un album che rivela qualcosa di nuovo di sé ogni volta che lo approcci, e rispetto al suo precedente ha una sua timida ritrosia che ti prende sempre per mano gentilmente, mentre Four Of Arrows e Plastic Cough ti davano dei bei pugni nello stomaco e si facevano capire al volo. 

L'iniziale Sleep / Never Rest ci conduce subito in una dimensione dove gli archi abbracciano la tipica inquietudine dei Great Grandpa e sembrano letteralmente cullarla (si parla non a caso delle preoccupazioni di diventare genitori), con l'andamento rapsodico e obliquo che la band da sempre maneggia con naturalezza incredibile: tutto scorre verso un crescendo che sembra non arrivare mai e invece arriva, alla fine, con un vigore lirico che ricorda i Radiohead di Ok Computer, anche nella deflagrazione conclusiva. 

Ma è davvero folk la dimensione in cui i Great Grandpa di oggi si muovono, tanto che la splendida, morbida altalena country-acustica di Junior non può che far pensare a quei Big Thief che in fondo anche la critica ha sempre accostato volentieri alla band di Seattle. Con un contrappunto di violino e una coda corale che scioglierebbe anche il cuore di Faraone. 

Se nella breve e intricata Emma i GG mostrano la loro capacità di sintesi emotiva, un pezzo come Ladybug ci mette davanti a qualcosa di nuovo rispetto al passato: la trama è quella consueta della band, con le sue fughe in avanti e le sue pause meditative, sempre dentro una dimensione pienamente alt folk che echeggia i Neutral Milk Hotel, ma c'è anche un lavoro di produzione che osa scomodare qualche elaborazione elettronica, seppure cum grano salis. La mappa del pezzo non è lineare, va ricostruita - come ai cinque di Seattle piace fare da sempre - ma è davvero piacevole perdersi in questi meandri.

Kiss The Dice poi è una piccola perla di cantautorato che poteva venire da un Connor Oberst o da un Sufjan Stevens. 

E, dimenticavamo di dirlo, la prevalenza un tempo quasi iconica di Alex Menne come vocalist lascia spesso spazio ai compagni, tanto che per tutta la parte centrale del disco quasi scompare. Ed anche quando è Alex a cantare, non lo fa più con la furia spezza corde vocali che aveva agli esordi, ed è naturale che sia così.

Doom, arco di volta dell'album, è davvero una Paranoid Android che rispetto all'originale ha gli angoli smussati ed un'idea di luce in fondo al tunnel. Parlavamo di virtuosismo: eccolo, nel senso più positivo del termine. Con in più il marker stilistico dei GG, che è la loro capacità di generare esplosioni melodiche controllate.

Con la splendida, intricata, spiraliforme Task torniamo un po' alle atmosfere di Four Of Arrows. E' una canzone sull'essere lontani e ritrovarsi, ciascuno con il proprio compito: il finale corale dice tutto, sia della band che di questo album. E il suo piccolo ordinato labirinto elettro-acustico-sinfonico ci invita a perderci e a ritrovarci senza posa. Piccolo grande capolavoro, sicuramente. Nessuno sa imbastire trame così come i Great Grandpa. 

Top Gun è un pezzo di una intimità cantautore assoluta: acustiche, lap steel. Precede il momento più stravagante dell'album (l'unico in verità): una Ephemera che ha un groove quasi trip hop, elegantissimo nella sua confezione patinata, ma forse lontano dalle corde della band. 

Siamo al gran finale. La voce filtrata e moltiplicata introduce l'architettura ambiziosa di Kid, dove tutti i membri della band si succedono senza soluzione di continuità nel cucire la propria parte in una rapsodia di archi, pianoforte, chitarre, armonie vocali, che un po' di "bohemian", diciamocela tutta, ce l'ha eccome. "The weight of our good things said you're not alone" cantano tutti insieme i ragazzi a metà del racconto - che è un racconto davvero, lungo ed accorato - ed è il messaggio che ci lascia tutto Patience, Moonbeam. Un messaggio che è un inno all'umanità, ai rapporti autentici, allo scoprirsi importanti gli uni per gli altri. Non c'è dubbio che per i Great Grandpa sia il pezzo davvero determinate dell'album, ed è così: ci sono almeno cinque canzoni fuse in un unico largo movimento, e nessuna vive senza le altre. E' esso stesso il simbolo della loro unione umana ed artistica. 

Si scriverà senz'altro che Patience, Moonbeam è l'album della maturità della band di Seattle. Lo è per forza, perchè nessuno dei cinque è più un ragazzino da tempo. Ma lo è soprattutto perchè Alex Menne e compagni hanno deciso in modo saggio e programmatico di non replicare pari pari nessuno dei pattern che li rendevano così alti e riconoscibili. Sono partiti da quelli, certo, ma li hanno accomodati in un songwriting che oggi è lontano da quello - appassionato, a tratti quasi disperato, spesso sopra le righe - del 2019. I Great Grandpa del 2025 sono musicisti di livello pazzesco che mettono a disposizione i propri talenti per una narrazione di sé che è onesta e assolutamente poetica in ogni suo centimetro. Insomma, dove c'erano cambi di ritmo e tonalità spiazzanti, continue frustate di elettricità, una vocalità a volte persino teatrale, oggi ci sono le coperte calde degli archi, un'attitudine più serena e morbidamente delicata, chitarre acustiche quasi dominanti e, idealmente, un fuoco che scoppietta nel camino. 

Può piacere o meno questo tenue ma determinante cambiamento. Resta comunque il fatto che l'album è ricolmo di una bellezza gentile, di una forza sottile ma inarrestabile, di una viva ispirazione, come pochi. 
La produzione affidata all'altro chitarrista Dylan Hanwright - ricca, formalmente ineccepibile, equilibrata nello sperimentare qualche soluzione anche azzardata - valorizza ed esalta proprio questa caratteristica così peculiare dei Great Grandpa: il loro essere un insieme perfetto di grandi individualità, che riescono ad emergere senza che nessuno prevalga. 

02 aprile 2025

Jetstream Pony - Bowerbirds and Blue Things ALBUM REVIEW


Non c'è dubbio che Bowerbirds and Blue Things sia il primo disco veramente molto atteso di questo 2025. Lo dichiariamo subito: è una bomba. 
Il ritorno dei Jetstream Pony a cinque anni di distanza dal loro omonimo album d'esordio è esattamente quello che ci aspettavamo dalla super-band inglese: un trionfo di indie pop classico, elettrico e terribilmente immediato, dinamico e coinvolgente, perfettamente retrò e altrettanto perfettamente contemporaneo.

Beth Arzy, Shaun Charman, Kerry Boettcher, Tom Levesley e Mark Matthews (ultimo arrivato nel gruppo) hanno macinato talmente tanta musica nelle loro carriere che le canzoni sembrano scorrere come acqua fresca di una fontana zampillante dai loro strumenti. Provengono da storie diverse o contigue, hanno un'età, come si suol dire, ma insieme in questo loro progetto suonano come dei ventenni che hanno appena scoperto e messo a punto il loro stile peculiare e fremono di entusiasmo.

Sit and Wonder si intitola il primo episodio, e infatti già davanti a tanta bellezza non possiamo che sedere e rimanere a bocca aperta: la ruvidezza citaristica, le chitarre croccanti e l'andamento morbidamente squadrato è quello dei Bats, ma la voce di Beth ci fa rivivere soprattutto la vigorosa rotondità melodica dei suoi Luxembourg Signal (che ci mancano, tanto).

I Jetstream Pony portano avanti dalla loro fondazione una solida tradizione indie pop che si ancora direttamente alle origini nobili del genere, al C86, ai Jesus & Mary Chain, al post punk, ai gruppi più elettrici della Sarah e della Creation - in fondo alcuni di loro l'hanno vissuta in diretta - e nei loro pezzi si leggono in modo evidente quelle pagine di storia. Ciò che però tiene distante la band da una dimensione puramente nostalgica, come accennavamo poc'anzi, è la sua straordinaria forza: quella capacità innata di dosare gli ingredienti, togliere tutto quello che non serve e sintetizzare il proprio guitar pop rendendolo perfetto nella sua essenzialità. Il che, se ci pensiamo, è davvero il cuore pulsante del genere che amiamo, sin da quando è nato. 

Tanti i pezzi che rendono indimenticabile l'album: la rotonda Bubblegum Nothingness, la più oscura The Relativity Of Nothing, la lunga incalzante ed ipnotica Bonanza 2 Tango Sierra, l'inquieto duetto fra Beth e Shaun di Only If you Want To, la trascinante Captain Palisade, il mesmerico jingle jingle di 3am, lo sfrigolante trionfo finale di Look Alive!. 

29 marzo 2025

My Raining Star - Momentum ALBUM REVIEW

Poi secondi dopo l'inizio di For Good, il pezzo che apre questo secondo atteso disco di My Raining Stars, l'impressione di trovarmi dentro una canzone degli Oasis del 1994 mi ha dapprima spiazzato, e immediatamente dopo mi ha fatto alzare sulla sedia. 

Che Thierry Haliniak fosse un appassionato cultore dell'indie dell'epoca d'oro (fine '80, primi '90) è comunque cosa nota fin dalle sue produzioni precedenti (non solo con questo suo progetto solista), e infatti nell'intero svolgimento di Momentum possiamo trovare una lunga lista di modelli da cui l'ottimo musicista francese - affiancato ancora dal produttore e multistrumentista danese Casper Iskov - ha tratto evidente ispirazione, citando stili e mood diversi. 

Ecco allora che troviamo uno psichedelico profumo di Stone Rose in Better Life, uno sfrigolante paesaggio dream pop nella suggestiva e davvero emozionante Stop The Time, memorie dei Ride più orecchiabili in Lost In The Wild, l'impasto chitarre voci melodia dei primi Teenage Fanclub in Lovers, e così via...

Ma sarebbe comunque riduttivo riassumere il talento di scrittura di Haliniak con la sua capacità citazionale: in verità in tutti i dieci episodi di Momentum c'è innanzitutto una delicata ma trascinate forza comunicativa che riesce sempre con estrema facilità ad usare la trama squillante delle chitarre, il dinamismo della sezione ritmica e la linearità melodica in modo perfettamente immediato ed efficace. Prendiamo ad esempio un gioiellino catchy come The Cost Within, che forse è la fotografia più a fuoco dello stile My Raining Stars, ma anche l'ambizione scenografica ed avvolgente della conclusiva Manhattan, che un po' ricorda gli Hurricane #1 di Andy Bell. 

Come già abbiamo avuto modo di dire in passato, i dischi di Thierry sono una carezza per gli appassionati di indie pop, e Momentum in questo senso è veramente un album imperdibile. 

25 marzo 2025

The Kind Hills - A Simple Life EP REVIEW

Deve per forza esserci un destino se sei ragazzi che provengono da parti lontane del mondo (almeno quattro continenti coinvolti) si incontrano da studenti universitari, scoprono un amore comune per l'indie pop (che, per inteso, non è precisamente il genere più diffuso tra i ventenni), fondano una band e riescono a tenerla in vita anche quando gli studi sono finiti, facendo fra l'altro dell'ottima musica.

Dopo un primo album uscito nel 2023, Bea, Brett, Chase, Sam, Jessica e Roman hanno confezionato questo gioiellino di EP pubblicato dalla sempre meritevole Subjangle (che è sudafricana, così siamo a 5 continenti). A Simple Life è un piccolo tesoro di sette canzoni di una eleganza artigianale fragile e preziosa, che sembrano davvero sbucate fuori da un altro tempo e un'altra dimensione, ironiche e leggere come una serata tra amici (i titoli parlano da soli e le liriche vanno di seguito: Vegans, You Only Call Me When You're Drunk, Netflix & Chill, Woke..) ma al contempo testimoni di un talento di scrittura fuori dall'ordinario. 

Musicalmente i Kind Hills si muovono in un territorio che sta a metà fra la sorridente indolenza jangly delle band Flying Nun, la dimensione casalinga e giocosa di un folk pop che ricorda persino i Sambassadeur (prendete Vegans), e il gusto melodico catchy e raffinato di gruppi come i Quivers, così attenti alla dimensione armonica vocale dei loro pezzi. Con in definitiva una attitudine cantautorale che prima di tutto sente l'esigenza di raccontare e lo fa con una rigorosa economia di mezzi. 

Tutto "in chill" più totale, come direbbero loro: poca elettricità, tante voci diverse, una diffusa orecchiabilità cantilenante e un po' bambinesca (anti-folk diciamo) che ti mette perfettamente a tuo agio. 

21 marzo 2025

Sea Of Days - Wound ALBUM REVIEW

Non c'è dubbio che Shane Speed sia un grande appassionato di shoegaze e di dream pop. Come molti dei musicisti di cui parliamo da queste parti, Speed è abituato a fare tutto da sé, mettendo l'intera propria cultura musicale dentro le sue produzioni casalinghe. 

Wound, che è il secondo album a nome Sea Of Days dopo l'esordio Adrift (del 2022), mostra in modo chiaro l'idea di indie pop di Shane: liquida, avvolgente, sottilmente malinconica e sognante, intessuta con una sapiente trama di chitarre cristalline, raffinatissima nella sua ricercata essenzialità. 

Dopo il soffuso e atmosferico inizio Wound Poem , dove sentiamo la voce di Maud Ayways, si succede una serie di pezzi di piacevolissimo dinamismo, che si muovono in punta di piedi tra paesaggi decisamente dream pop ora eterei e sfumati (la lunghissima City Shroud, dove l'uso dei synth è preponderante), ora più notturni e romantici (l'organo di Hold The Beauty Close), a tratti echeggianti i Cure più dilatati (Music In Silence)

Ma è soprattutto quando i ritmi si alzano leggermente e l'elettricità è più libera di fluire che Sea Of Days dà il meglio, perchè riesce ad unire con naturalezza catchyness e forza: la rotonda Where Do I Begin, la coinvolgente Duality, la splendida Caves, che a mio parere è il punto più alto del disco, con la sua calma che si trasforma in scenografico crescendo. 


15 marzo 2025

SONGS & EPs MARCH EDITION

Iniziamo con un piccolo ma splendido ep dream pop, quello degli australiani Rocket Rules. Ma è molto interessante anche il lavoro di In The Afterglow, che è shoegaze prodotto dichiaratamente con l'uso dell'AI. 

Tra i singoli il posto d'onore questo mese se lo prendono il pop-rock '80s flavoured dei Rightovers e l'irresistibile entusiasmo dei My Fat Pony. Da non perdere anche il singolo dei russi Blankenberge e la delicatezza senza tempo dei Sungaze. 

La quota "estremo oriente" questa volta la rappresentano i Cubfires. Quella power pop i newyorkesi Strange Neighbors

E sì, c'è un nuovo The Reds Pinks & Purples, più sfrigolante che mai...

EP:

SINGOLI:

 





 






07 marzo 2025

Beach Vacation - Let Go EP REVIEW

Tabor Rupp fa musica da almeno una dozzina di anni in quel di Seattle, usando il moniker Beach Vacation. 

Il dream pop del suo alter ego artistico è da sempre in assoluto uno dei più soffici e avvolgenti che ci siano in circolazione: chitarre jangly che si allargano nella superficie sonora dei pezzi come cerchi nell'acqua, synth atmosferici intorno, la voce filtrata e quasi sussurrata, le melodie di delicata rotondità che non osano mai sforare nell'immediatezza.

I sei episodi di questo Let Go EP, che esce per la sempre ottima label francese Too Good To Be True (la stessa di Meyverlin e My Raining Stars, che in effetti possiedono il medesimo mood), possono un po' assomigliare a qualcosa di Castlebeat o di Day Wave, ma in realtà hanno una forte personalità propria, che fanno fiorire i germogli post punk in un giardino invernale diafano e innevato. 

Come Back, con il suo delizioso e sognante dinamismo, è un piccolo gioiello.