Nel 2019
Four Of Arrows, secondo album dei Great Grandpa, aveva mostrato la fotografia di una band che sembrava avere talmente tanta ispirazione, tecnica e talento da potersi permettere qualunque cosa. Il gruppo di Seattle aveva messo perfettamente a fuoco uno stile peculiare che sapeva essere debitore tanto del mate rock quanto del folk, intimo e fragoroso al tempo stesso, potentissimo nella costruzione volutamente franta e scenografica di tutte le sue canzoni, che a tratti sfioravano il virtuosismo.
Il 2020 ha ovviamente comportato un forte iato nella carriera della band. In più la cantante Alex Menne si è trasferita a LA per inseguire una carriera solistica, mentre Pat e Carrie Goodwin (l'anima creativa del gruppo) sono finiti in Danimarca, dove hanno messo su famiglia. Insomma, ce n'era abbastanza per mettere fine ai Great Grandpa, proprio all'apice della loro parabola artistica.
Fortunatamente il desiderio di suonare insieme e di ricreare l'innegabile magia alchimia del gruppo ha prevalso, seppure con dei tempi lunghissimi.
Non nascondo che Patience, Moonbeam è forse il disco che ho aspettato con più ansia dai tempi del terzo degli Alvvays. Per parlarne, ho deciso di aspettare almeno il decimo ascolto, sia per metterlo oggettivamente in una giusta prospettiva, ma anche perchè semplicemente è un album che rivela qualcosa di nuovo di sé ogni volta che lo approcci, e rispetto al suo precedente ha una sua timida ritrosia che ti prende sempre per mano gentilmente, mentre Four Of Arrows e Plastic Cough ti davano dei bei pugni nello stomaco e si facevano capire al volo.
L'iniziale Sleep / Never Rest ci conduce subito in una dimensione dove gli archi abbracciano la tipica inquietudine dei Great Grandpa e sembrano letteralmente cullarla (si parla non a caso delle preoccupazioni di diventare genitori), con l'andamento rapsodico e obliquo che la band da sempre maneggia con naturalezza incredibile: tutto scorre verso un crescendo che sembra non arrivare mai e invece arriva, alla fine, con un vigore lirico che ricorda i Radiohead di Ok Computer, anche nella deflagrazione conclusiva.
Ma è davvero folk la dimensione in cui i Great Grandpa di oggi si muovono, tanto che la splendida, morbida altalena country-acustica di Junior non può che far pensare a quei Big Thief che in fondo anche la critica ha sempre accostato volentieri alla band di Seattle. Con un contrappunto di violino e una coda corale che scioglierebbe anche il cuore di Faraone.
Se nella breve e intricata Emma i GG mostrano la loro capacità di sintesi emotiva, un pezzo come Ladybug ci mette davanti a qualcosa di nuovo rispetto al passato: la trama è quella consueta della band, con le sue fughe in avanti e le sue pause meditative, sempre dentro una dimensione pienamente alt folk che echeggia i Neutral Milk Hotel, ma c'è anche un lavoro di produzione che osa scomodare qualche elaborazione elettronica, seppure cum grano salis. La mappa del pezzo non è lineare, va ricostruita - come ai cinque di Seattle piace fare da sempre - ma è davvero piacevole perdersi in questi meandri.
Kiss The Dice poi è una piccola perla di cantautorato che poteva venire da un Connor Oberst o da un Sufjan Stevens.
E, dimenticavamo di dirlo, la prevalenza un tempo quasi iconica di Alex Menne come vocalist lascia spesso spazio ai compagni, tanto che per tutta la parte centrale del disco quasi scompare. Ed anche quando è Alex a cantare, non lo fa più con la furia spezza corde vocali che aveva agli esordi, ed è naturale che sia così.
Doom, arco di volta dell'album, è davvero una Paranoid Android che rispetto all'originale ha gli angoli smussati ed un'idea di luce in fondo al tunnel. Parlavamo di virtuosismo: eccolo, nel senso più positivo del termine. Con in più il marker stilistico dei GG, che è la loro capacità di generare esplosioni melodiche controllate.
Con la splendida, intricata, spiraliforme Task torniamo un po' alle atmosfere di Four Of Arrows. E' una canzone sull'essere lontani e ritrovarsi, ciascuno con il proprio compito: il finale corale dice tutto, sia della band che di questo album. E il suo piccolo ordinato labirinto elettro-acustico-sinfonico ci invita a perderci e a ritrovarci senza posa. Piccolo grande capolavoro, sicuramente. Nessuno sa imbastire trame così come i Great Grandpa.
Top Gun è un pezzo di una intimità cantautore assoluta: acustiche, lap steel. Precede il momento più stravagante dell'album (l'unico in verità): una Ephemera che ha un groove quasi trip hop, elegantissimo nella sua confezione patinata, ma forse lontano dalle corde della band.
Siamo al gran finale. La voce filtrata e moltiplicata introduce l'architettura ambiziosa di Kid, dove tutti i membri della band si succedono senza soluzione di continuità nel cucire la propria parte in una rapsodia di archi, pianoforte, chitarre, armonie vocali, che un po' di "bohemian", diciamocela tutta, ce l'ha eccome. "The weight of our good things said you're not alone" cantano tutti insieme i ragazzi a metà del racconto - che è un racconto davvero, lungo ed accorato - ed è il messaggio che ci lascia tutto Patience, Moonbeam. Un messaggio che è un inno all'umanità, ai rapporti autentici, allo scoprirsi importanti gli uni per gli altri. Non c'è dubbio che per i Great Grandpa sia il pezzo davvero determinate dell'album, ed è così: ci sono almeno cinque canzoni fuse in un unico largo movimento, e nessuna vive senza le altre. E' esso stesso il simbolo della loro unione umana ed artistica.
Si scriverà senz'altro che Patience, Moonbeam è l'album della maturità della band di Seattle. Lo è per forza, perchè nessuno dei cinque è più un ragazzino da tempo. Ma lo è soprattutto perchè Alex Menne e compagni hanno deciso in modo saggio e programmatico di non replicare pari pari nessuno dei pattern che li rendevano così alti e riconoscibili. Sono partiti da quelli, certo, ma li hanno accomodati in un songwriting che oggi è lontano da quello - appassionato, a tratti quasi disperato, spesso sopra le righe - del 2019. I Great Grandpa del 2025 sono musicisti di livello pazzesco che mettono a disposizione i propri talenti per una narrazione di sé che è onesta e assolutamente poetica in ogni suo centimetro. Insomma, dove c'erano cambi di ritmo e tonalità spiazzanti, continue frustate di elettricità, una vocalità a volte persino teatrale, oggi ci sono le coperte calde degli archi, un'attitudine più serena e morbidamente delicata, chitarre acustiche quasi dominanti e, idealmente, un fuoco che scoppietta nel camino.
Può piacere o meno questo tenue ma determinante cambiamento. Resta comunque il fatto che l'album è ricolmo di una bellezza gentile, di una forza sottile ma inarrestabile, di una viva ispirazione, come pochi.
La produzione affidata all'altro chitarrista Dylan Hanwright - ricca, formalmente ineccepibile, equilibrata nello sperimentare qualche soluzione anche azzardata - valorizza ed esalta proprio questa caratteristica così peculiare dei Great Grandpa: il loro essere un insieme perfetto di grandi individualità, che riescono ad emergere senza che nessuno prevalga.