30 agosto 2025

The Beths - Straight Line Was A Lie ALBUM REVIEW


"Pensavo di migliorare, ma sono tornata da dove sono partita. E la linea retta era un cerchio. Penso che prenderò la strada lunga, perchè tutte le strade in fondo sono la strada lunga, ed io non so se posso girarmi intorno ancora" canta Liz Stokes nel pezzo che apre il nuovo, quarto disco dei suoi Beths. 

Non c'è dubbio in effetti che, arrivati al decimo anno di (più che onorata) carriera, i neozelandesi abbiano un po' voluto tirare le somme di quanto fatto sinora. Un'istituzione in patria, uno dei gruppi power pop più amati, celebrati e rispettati in tutto il mondo, una macchina da live, i quattro di Auckland hanno tracciato la loro "linea retta" a partire da una ricetta tutto sommato semplice: una solida e vivace sezione ritmica (Tristan Deck, Benjamin Sinclair), un chitarrista/produttore capace di creare ganci memorabili (Jonathan Pierce), una cantante/autrice dalla voce piana e riconoscibile dotata di una penna eccezionale ed autoironica (Elizabetn Stokes), ed infine una gioiosa (e tecnicamente perfetta) propensione a quelle armonie vocali che li rendono da sempre così riconoscibili. 

Nell'aftermath del loro terzo album, sulla cresta dell'onda, qualcosa in effetti è successo direttamente dentro il cuore pulsante e creativo del gruppo: Elizabeth, certamente. 

La diagnosi di una malattia autoimmune alla tiroide e la consapevolezza di dover fronteggiare un male cronico che si può "tenere a bada" ma mai sconfiggere, hanno precipitato Liz in uno stato d'ansia che ha richiesto l'uso di farmaci antidepressivi. Farmaci che a loro volta hanno causato uno stato di anedonia e annebbiamento che, per chi suona e scrive di mestiere, ha comportato un forte rallentamento creativo ed ovviamente una crisi totalizzante. Insomma, Elizabeth era finita in una sorta di spirale negativa da cui è riuscita ad emergere adottando un nuovo metodo di scrittura. In tre mesi di clausura a Los Angeles insieme a Jonathan Pierce, è riuscita ad afferrare il fil rouge di una specie di flusso di coscienza a cui si è abbandonata, imponendosi una routine che ha generato le dieci canzoni dell'album (e altrettante che ancora non hanno visto la luce, ma chissà...). Il ritorno a Auckland e all'abbraccio della band ha fatto il resto, ed eccoci qui. 

Ora, se è evidente come quasi tutti i pezzi del disco siano disseminati di una "oscurità" inusuale per i Beths - pur filtrata dalla solita ironia (prendiamo il punk quasi tagliente di No Joy) - la ragione risiede proprio nel fatto che i quattro neozelandesi in questo momento sono ad un punto di svolta sotto diversi aspetti: sono indubbiamente quelli di prima - e il loro talento può solo crescere - ma al contempo non lo sono più. Specialmente Elizabeth, come vedremo. 

Può quindi il punto di svolta corrispondere anche con un classicissimo "ritorno alle origini"? A giudicare dalla già citata Straight Line Was A Lie, parrebbe davvero di sì, tanto che sembra davvero di essere tornati all'atmosfera corale, leggera, dinamica, catartica e weezeriana di un pezzo dei primissimi tempi come Lying In The Sun, che data al 2016 e manco aveva trovato posto nel disco d'esordio. Funziona? Sì, funziona, perchè la fotografia che i Nostri si scattano dieci anni dopo li vede un po' invecchiati in viso, ma freschi, potenti, sfrontati, divertenti e divertiti esattamente com'erano all'epoca. Però... Certo che c'è un però, perché la sintesi dell'episodio che apre l'intero lotto e dà il titolo all'album dipinge già alla perfezione il periodo di sofferenza che Elizabeth ha affrontato (e che deve affrontare), e lo fa con una rabbia intrinseca che la forma ariosa della canzone quasi nasconde. 

Dalla traccia 2 è già perfettamente chiaro come Straight Line sia in tutto e per tutto "il disco di Elizabeth Stokes". Intendiamoci, The Beths hanno sempre girato attorno alla loro singer/songwriter, ma è stata preponderante una dimensione d'insieme che non ha mai messo sola sul palco Liz con l'occhio di bue ad illuminare la sua iconica frangetta mora.

Mosquitos infatti parte come racconto così intimo - un saggio di quello stream of consciousness che dicevamo - che davvero non pare nemmeno di avere a che fare con i Beths allegramente rock che conosciamo, ma con il lavoro di una cantautrice solista. Una grande cantautrice solista, per altro, che dal ricordo di una passeggiata lungo le rive del fiume che bagna Auckland (e che l'ha pure sommersa un paio d'anni fa) tira fuori un verso pazzesco e terribile come "leave me here, only skin, only blood, i'm only here to feed mosquitos", incrociando il topos dello scorrere inesorabile e inafferrabile del tempo con l'idea inquietante e al contempo serenamente rassegnata della fragilità umana. Stilisticamente siamo dalle parti delle cose migliori di Phoebe Bridgers, di Lucy Dacus, di Waxahatchee, ma con la innata leggerezza dei Beths a rendere tutto meravigliosamente surreale.

No Joy, dicevamo, è una delle cartine di tornasole del disco. È un piccolo prodigio di ritmi che si infrangono continuamente, con un chorus potentissimo e una notevole forza centrifuga. Il tema è quello dell'incapacità di provare piacere dietro la cortina degli antidepressivi, ma c'è anche una riflessione più generale - quella che sottende l'intero album - sul "non sapere dove sbattere la testa" davanti alle circostanze che sembrano togliere il senso a tutto.

Metal continua la riflessione esistenziale giocando ancora una volta sull'ambivalenza fra una forma morbidamente jangly e uno dei testi più icastici e geniali che Elizabeth abbia mai scritto. "E lo so, io sono una collaborazione, batteri carbonio e luce, una florida orchestrazione, una ricetta fatta di fortuna e tempo, sì è un bel po' di roba da considerare, ma santo cielo è meraviglioso ". Un calcio di speranza dopo i primi tre pezzi - e alla maniera dei Beths quando si fanno soffici, come ai tempi di Jump Rope Gazers - ma anche un'ulteriore testimonianza di come queste canzoni, prima di diventare canzoni (pop in questo caso, si può dire tranquillamente), siano state un groviglio di vita e pensieri e sangue (che infatti ricorre tantissimo come immagine in tutto l'album). Un groviglio che si è dipanato un po' alla volta e di cui Liz tiene saldamente in mano il capo. 

Bene. Fino a questo punto Straight Line è stata un'altalena emotiva tra saggezza e disperazione. Con Mother Pray For Me l'altalena si stacca dal perno e ci lascia letteralmente fluttuare abbandonandoci a mezz'aria.



Non c'è mai stato nulla del genere nella storia dei Beths e giustamente i Nostri hanno piazzato il pezzo esattamente nel cuore del disco, alla fine di un ideale lato A che - come dicevamo - ha messo al centro Liz come mai è stata prima. Qui la band praticamente si fa da parte. Ci siamo solo Elizabeth, la sua chitarra, un organo sottile che rimanda a quello della chiesa in cui andava da bambina, noi, e le nostre lacrime. 
In un vortice in cui tutti i traumi sono venuti a galla insieme, il complesso rapporto con la madre (di lingua e cultura indonesiana e molto religiosa) sembra quasi fungere da catalizzatore simbolico di quella svolta che dicevamo sopra. La malattia ha spinto Liz a riconsiderare tutto nella propria vita, e in questa preghiera alla madre c'è, concentrata nei suoi versi da ninna nanna, una vita intera. "Madre parlerai ancora con me?, non saprò mai in che lingua sogni, in mezzo da qualche parte c'è un gergo in cui ci intendiamo, ma è sufficiente? [...] Madre non piangere per me, ho fatto già abbastanza danni, ho voluto farti del male per il male che hai fatto in me, e lo so che io sono il motivo per cui hai pianto... [...] Madre ci sei?, sono io, lo so che non ho chiamato la scorsa settimana, più a lungo resto lontana più dura sembra dopo, e non so mai cosa dire comunque, Madre prega per me...". Non c'è molto da commentare: siamo davanti ad un'artista, una donna, che mette totalmente a nudo i suoi sentimenti, e lo fa con una potenza lirica e con una quieta confidenza che quasi sentiamo di non meritare, e che non può non spalancare ferite anche nelle nostre vite mentre ascoltiamo. 

Dopo un momento così emozionale e doloroso, Til My Hearts Stops è l'abbraccio caldo che ti riporta al mondo. La canzone è costruita come un delicato e sapiente crescendo e porta al chorus con un senso di (finalmente) gioiosa liberazione. Quando Liz canta "i wanna ride my bike in the rain, i wanna fly my kite in a hurricane" è come se un nodo intricato si fosse sciolto. Il cielo torna sereno. Forse. 

Con Take si riaffacciano i ritmi upbeat a cui i Beths ci avevano abituato da sempre. E ritorna anche una piena collettività della band, che spinge sui pedali tutta insieme e sforna un pezzo che ricorda un po' Little Death o altri episodi "veloci" dei primi dischi, ma al contempo affronta ancora fantasmi del passato (la dipendenza dall'alcol come desiderio di stordimento e rifiuto della realtà). 

Roundabout prosegue sulla stessa strada, ma abbandona per i suoi quattro minuti l'oscurità del pezzo precedente. La chitarra si fa di nuovo jangly e il ritornello è di una dolce rotondità, intriso di una nostalgia sorridente. 

Ark Of The Covenant - la citazione non è biblica ma viene da Indiana Jones - parte da un post punk tagliente e scenografico per impostare ancora una volta una riflessione intima e inquieta: "cercando la parte cattiva di me, che mi allontana dalla mia umanità, più cose guardo e più cose trovo, giro l'angolo in una grotta e trovo una miniera d'oro, e se continuo a scavare non riesco a smettere, incubi fossili in ogni angolo..." confessa Liz a sé stessa. Non sembra - perchè il pezzo ha solo una vaga allure Cureiana ed un dinamismo immediato - ma è forse il momento più notturno dell'album.  

Best Laid Plans, ultimo episodio di Straight Line, mette in prima linea il drumming torrenziale e virtuosistico di Tristan Deck e costruisce tutto intorno un pezzo dalla struttura ancora una volta non usuale per lo standard Beths, quasi ballabile, dove tutti e quattro i membri della band hanno il loro momento strumentale, i cori fluiscono floreali e rigogliosi, e la coda si allunga volentieri come accadrebbe in un live. Un finale aperto per un album di straordinaria densità, che lascia all'ascoltatore quel messaggio di speranza e leggerezza che la band neozelandese ha sempre regalato ai suoi seguaci: "prendi il mio denaro, prendi le mie mani, lasciami stare qui con i miei progetti migliori, lasciami essere fragile, con una lacrima che si asciuga sulla mia guancia...". 

In definitiva Straight Line Was A Line è davvero un disco di svolta per la band. Ci sono molti elementi che mostrano come i quattro abbiano voluto riallacciare i fili con le loro origini, ma nel complesso si tratta di un album di notevole complessità, in cui Jonathan, Tristan e Benjamin si sono messi a totale disposizione della loro frontgirl e del suo "stato di grazia" creativo. Sì, perchè se c'è una cosa che queste canzoni dimostrano, è come la musica sia servita a Elizabeth per rielaborare ed affrontare i suoi fantasmi, permettendole di arrivare senz'altro a scrivere le cose più belle e profonde della sua intera carriera. 

Non è un album "facile". Non ci sono "linee rette". Non piacerà a chi dai Beths cerca soprattutto quell'intrattenimento indie intelligente che li ha resi giustamente famosi. Ma è altrettanto evidente come sia al momento il vertice del loro percorso artistico, in cui tutti gli equilibri si sono spostati per ritrovarsi perfettamente, pure diversi da prima. 

24 agosto 2025

Blush - Beauty Fades, Pain Lasts Forever ALBUM REVIEW

I Blush sono uno di quei gruppi che non sono proprio facilissimi da inquadrare a parole. Arrivati al secondo album dal titolo sentenzioso Beauty Fades Pain Lasts Forever, la band di Singapore nei suoi quattro anni di attività ha sicuramente attirato l'attenzione internazionale, tanto da ottenere un contratto con la prestigiosa Kanine Records e suonare da una parte e dall'altra del Pacifico. Sono indubbiamente bravi e giustamente ambiziosi. 

Se c'è un marker stilistico peculiare che contraddistingue il gruppo, probabilmente sta nel suo desiderio di sovrapporre una dolcezza melodica quasi estenuata ad un muro di suono che a tratti è dominato totalmente dalla distorsione. 

In qualche modo l'album racconta alla perfezione queste due polarità, che stanno significativamente racchiuse fra il sinuoso singolo X My Heart e le esplosioni quasi emo/metal di Swallowing 999999 Needles

In mezzo, a mio parere, le cose davvero migliori: la dinamica morbidezza di Heartbreak Café, il power pop di sicura e immediata suggestione emotiva di T.V. Mind e Lover's Speed, la delicatezza melodica piacevolmente obliqua di Ultrablue, e soprattutto il paesaggio tra shoegaze e Cure della lunga e avvolgente Everything Wars Made In Spring.

Rispetto al passato, si sente una evidente spinta produttiva, che ha valorizzato la voce sottile di Soffi e lavorato sul suono pieno, ora esaltante ora disturbante, delle chitarre, che restano saldamente il perno attorno al quale si muovono i Blush. 

20 agosto 2025

The Reds Pinks & Purples - The Past Is A Garden I Never Fed ALBUM REVIEW

E' una verità scientifica assodata che l'universo musicale di Glenn Donaldson sia in costante espansione. Lo provano le 200 canzoni e oltre scritte - e in buona parte pubblicate, digitalmente o no, in ep o album o collezioni varie - negli ultimi sei anni. E probabilmente quando leggerete questo articolo sarà già uscito qualcosa di nuovo. 

Il musicista di San Francisco, lo abbiamo detto più volte, è tanto prolifico quanto timido e coerente nel suo difendere a spada tratta la dimensione "da cameretta" del suo progetto The Reds Pinks & Purples, per quanto ultimamente si sia fatto vedere anche dal vivo con una vera band.

Nel florilegio di produzioni che caratterizzano Glenn (che scrive anche di musica, fra l'altro), questo The Past Is A Garden I Never Fed è una raccolta di canzoni già edite digitalmente qua e là, che per la prima volta sono messe insieme in forma di album. Il fatto eccezionale - ma non così tanto se conoscete già Donaldson - è che non si tratta di un pugno di b-sides più o meno scartate, ma di pezzi di primissimo piano, alcuni davvero imprescindibili nella carriera di THP&P (prendete giusto la opener The World Doesn't Need Another Band, a dir poco antemica nel suo sfrigolante nichilismo). 

Al di là del fatto assodato che ormai Glenn sia una vera istituzione indie pop, non diremo mai abbastanza quanto sia soprattutto la sua scrittura ad avere qualcosa di miracoloso. Il filo che TRP&P porta avanti origina da qualche parte dalle parti della California dei Byrds, e idealmente si dipana nei decenni attraverso cose anche apparentemente distanti (ma in realtà no): i primi REM, l'indie americano dei '90 (Lemonheads, Dinosaur Jr...), il jangle pop della Flying Nun, i Cure più melodici, le distorsioni avvolgenti dello shoegaze. Con in più un'(auto)ironia deliziosamente situazionista nelle liriche (e nei formidabili titoli) che contribuisce a rendere il tutto terribilmente leggero ed immediato. 

Nei quattordici episodi del lotto c'è davvero un'antologia ampia ed essenziale del mondo poetico e sonoro di Glenn: cose più potenti e quasi ruvide (My Toxic Friend), perfect pop songs elettro-acustiche alla The Bats (I Only Ever Wanted To Sei You Fail), quadretti obliqui e colorati (Slow Torture of an Ourly Wage), dolenti carezze jangly (Trouble Don't Last), accorate confessioni notturne (There Must Be A Pill For This) e quei paesaggi scampanellanti di brezza di cui solo lui è capace (Your Taste Makes You Strange, Marty as a Youth...). Un'antologia a suo modo varia, compatta e baciata da quell'eccezionale e difficilmente spiegabile senso di "grazia" che promana da ogni cosa che Glenn suona (sostanzialmente da solo), produce (da solo) e pubblica. 

17 agosto 2025

Absolutely Yours - Mirror Maze ALBUM REVIEW

Mirror Maze, il terzo (se conto bene) album di Absolutely Yours, è uscito nel solo formato digitale nel 2024, quindi non è propriamente una novità, però solo oggi la sempre meritevole Sunday Records lo pubblica fisicamente. E soprattutto, mea culpa, solo oggi mi sono accorto dell'esistenza di questa ottima band di Minneapolis. 

Però certe scoperte, specialmente se tardive, sono in realtà sempre un grande regalo, perchè poi danno l'opportunità di ricostruire cosa c'era prima. Nel nostro caso, il gruppo guidato da Bridget Collins ha cominciato a suonare (a Brooklyn) almeno da dieci anni e, come dicevamo, ha diversi dischi all'attivo.

Walked In Te Garden, il pezzo che apre Mirror Maze, è l'esca a cui sono rimasto immediatamente invischiato: un incrocio formidabile fra il dream pop etereo alla Hazel English / Day Wave, l'algida dolcezza retrò dei Club 8 e l'avvolgente rigore jangly dei Fear Of Men. Un'intera tiepida marea di chitarre scampanellanti con al centro la voce di Bridget che è come una carezza. 

Se Field Of Nothing ha l'aria leggerissima di tanto indie pop svedese (Acid House Kings, ...), con un delizioso contrasto fra la ritmica torrenziale e la morbidezza totale dell'intorno, I Didn't è l'altro pezzo davvero memorabile del lotto, più notturno nell'umore e con una chitarra languida che fa da contrappunto. 

The Comet e Sweet Surprise poi ricordano le cose più delicate e dinamicamente mesmeriche dei Luxembourg Signal: l'eleganza ipnotica e la ricchezza dell'impasto sonoro indicano in effetti che la band di Beth Arzy è forse in definitiva quella che stilisticamente si avvicina di più al mondo degli Absolutely Yours. 

L'intima ed eterea Fault Line e la soffusa purezza acustica sospesa nel tempo e nello spazio di The Graden chiudono un disco dalla bellezza sorprendente, fragile e complessa al tempo stesso. 

14 agosto 2025

Autocamper - What Do You Do All Day ALBUM REVIEW


Si diceva, a proposito delle recenti uscite di Jeanines e Lightheded, di quanti gruppi oggi riescano ad essere freschissimi suonando programmaticamente retrò. 

E' il caso anche degli Autocamper di Manchester che - riferisco le geniali e verbosissime note stampa - "sono il perfetto antidoto pop al prevedibile machismo post-punk cittadino". Qualsiasi cosa significhi, la band, che si definisce "not twee, not anorak, not lucky, just pop" è, in modo consapevole e dichiarato, orientata idealmente nella galassia indie pop originaria - C86, Creation, Sarah... - e da quella che noi chiamiamo "epoca d'oro" trae elementi stilistici ed estetici e un'attitudine artigianale e onnivora che mescola tutto e riesce ad essere terribilmente catchy e assolutamente sbilenca al tempo stesso.

What Do You Do All Day, che è il disco di debutto della band mancuniana, fotografa alla perfezione le capacità e al contempo le ambizioni del quartetto capitanato dalle voci di Jack Harkill e Niamh Purtill. 

Se il cuore sonoro del gruppo è sempre all'insegna di un guitar pop essenziale ed intelligente (loro stessi citano The Vaselines e The Pastels, io aggiungerei davvero i Bats e i Go-Betweens), c'è però quasi sempre la volontà di non essere prevedibili e di allargare il paesaggio ad altri inserti strumentali (il delizioso flauto di Red Flowers e Somehow, l'organo di profumo 60's quasi onnipresente), lavorando con ottimo gusto ad armonie vocali che - un po' alla Hevenly - sembrano spontanee ma in realtà sono piccole preziose architetture. Pezzi come Again, Linnean e Street View hanno insieme una purezza, una forza comunicativa, un misto di aggressività e morbidezza, una raffinatezza di scrittura intrinseca in grado di renderli instant indiepop anthems. 

11 agosto 2025

Bleach Lab - Close To The Flame EP REVIEW

Quanto i Bleach Lab siano bravi, beh, lo diciamo credo fin da A Calm Sense Of Surrounding, cioè l'ep che li ha sottratti da una dimensione totalmente artigianale e ha mostrato al mondo la loro via personale e riconoscibilissima al dream pop. 

Dopo la consacrazione definitiva del loro album di debutto, Jenna Kyle e compagni tornano a sorpresa con un nuovo ep, questo Close To The Flame, che contiene cinque pezzi perfettamente "alla Bleach Lab": romantici e scenografici, levigatissimi e quasi patinati nella confezione, malinconici e catartici nel loro essere notturni e super melodici, ricchi di quel retrogusto 80's che oggi è ovunque ma i quattro inglesi trattano come una parte essenziale del proprio dna. 

Lo stile che il gruppo di Londra si è costruito in questi anni è in fondo esattamente questo e, se possibile, viaggia a vele spiegate verso una dimensione che è sempre meno indie e sempre più apertamente pop, fragorosa nella sua esuberanza elettrica come ci si aspetta da loro (l'esplosione di I Could Be Anything fa effetto, eccome), ma al contempo orientata verso un'iper produzione che punta a sparare luci da ogni nota e a far emergere con prepotenza (e giustamente) il fascino vocale di Jenna. 

Può anche darsi che in termini di purezza qualcosa si sia perso dalle prime cose, ma poi a ben vedere Drown è una canzone pazzesca che ti viene voglia di ascoltare a nastro per dieci volte consecutive, Feel Something ha una dinamica ed una tridimensionalità di suono di cui solo i BL al momento sono capaci e In Your Arms ti getta in braccio ad un romanticismo che è quasi eccessivo ma alla fine dei conti non può non piacerti.  

08 agosto 2025

Allo Darlin' - Bright Nights ALBUM REVIEW


Quando, nel 2016, gli Allo Darlin' annunciarono ufficialmente il loro scioglimento dopo sei anni di piccoli grandi successi nella scena indie pop, dichiararono chiaro e tondo che l'amicizia fra di loro era più importante del comune "business" come band: insomma sarebbero rimasti in contatto, ma non avrebbero più suonato insieme.

Per un decennio hanno tenuto fede a quelle parole. Elizabeth Morris, che la band l'ha fondata dopo avere acquistato un po' per caso l'ukulele che sarebbe diventato così peculiare nel suo songwriting, si è spostata da Londra prima in Italia per insegnare inglese e poi in Norvegia per mettere su famiglia con il musicista Ola Innset. Bill Botting è tornato nella natia Australia. Michael Collins e Paul Rains sono rimasti in UK a vivere le loro vite. 

Poi la pandemia ha reso più facili le relazioni a distanza e Zoom ha agevolato una reunion che evidentemente tutti e quattro desideravano. Qualche data nel '23 non ha che fatto capire che l'amicizia era rimasta intatta, ma che la band era parte stessa di quella amicizia.

Bene. Bright Nights è quindi il quarto album della band anglo-australiana, e riparte da un lato esattamente dove il discorso si era interrotto, mentre dall'altro mostra per forza un gruppo che per forza di cose non è più formato da ventenni spensierati, ingenui ed entusiasti. 

La magia degli Allo Darlin' è sempre stata un mix straordinario di elementi: la scrittura limpida e riconoscibilissima e la voce rotonda e cristallina di Elizabeth, l'intreccio elettro-acustico, jangly e propulsivo delle chitarre, la dimensione narrativamente vitale delle liriche, l'adesione totale all'estetica twee, la semplicità e intelligenza melodica di ogni pezzo, l'impasto sonoro perfetto dei quattro membri della band, la capacità di farsi depositari di una intera tradizione indie pop senza darlo a vedere, con la sorniona nonchalance di chi sa di essere bravo ma più di ogni altra cisa si vuole divertire. 

In Bright Nights c'è tutto questo, perché gli Allo Darlin' questo sanno fare e non se lo sono certo dimenticato. Non c'è la prodigiosa sfrontatezza melodica né lo spirito da gioiosi globetrotter dei primi due album, ma è scontato che sia così.

Nei dieci amabili, freschi ed equilibratissimi pezzi del disco emerge maggiormente quel coté folk che è sempre stato sotteso alla loro musica e che ora sta sempre ben in rilievo. Non a caso l'incipit dell'album non è affidato - come è stato nel passato - a dei pezzi più elettrici ed arrembanti, ma alla ballata acustica Leaves In The Spring, che risplende di un intimismo totalmente cantautorale e mostra, se ce ne fosse ancora bisogno, di quale finezza di tocco sia capace Elizabeth Morris. 

Gli Allo Darlin' più "tradizionali" partono al minuto 1 di Tricky Questions, quando ritroviamo quel floreale carillon di chitarre jangly, basso e batteria che è stato sempre il marker stilistico della band.

My Love Will Bring You Home è forse il segno più evidente della "maturità" della band: è senz'altro il pezzo più incisivo dell'album, ed assomiglia più in verità al folk pop raffinato e limitatissimo dei Quivers che ai singoli uptempo un po' scanzonati dei primi album. Ad ogni modo è una canzone folk da brividi, commovente per quello che dice (è dedicata alle figlie di Elizabeth) e per come lo dice, memorabile non meno dei grandi classici della band. 

Se vi aspettate che l'album acceleri sul pedale uptempo resterete delusi. Tutto, da Northern Waters in giù, manifesta una scrittura che appare davvero casalinga, intima e "familiare", quasi interamente in punta di plettro, dove l'unica sorpresa è la (bellissima!) voce di Bill Botting nella ballata quasi country You Don't Think Of Me At All e l'adorabile tenerezza twee tipica degli Allo Darlin' è affidata a pezzi di soffusa e innegabile bellezza come Cologne e Slow Motion e al folk in purezza di Bright Nights

E' stato un piccolo miracolo questo ritrovarsi da amici / musicisti e, a dispetto del tempo passato, ci ha ribadito quanto la band anglo-australiana sia stata (sia!) una pietra miliare nell'indie pop, ancora capace di regalarci leggerezza ed emozioni. 

05 agosto 2025

Sourmilk - A Collection Of Absurd Ideas ALBUM REVIEW

Lo dico già da qualche tempo: teniamo sott'occhio l'Indonesia perchè da quelle parti c'è un fermento indie pop pazzesco. 

Lo dimostrano alla grande i Sourmilk, che vengono da Bali e con questa "collezione di idee assurde" sono al proprio album di debutto (li abbiamo già segnalati in passato in occasione dell'uscita di precedenti singoli). 

La band, che è un trio, sembra girare in tutto e per tutto attorno alla personalità vocale e di scrittura di Jessica Ria, e suona un guitar pop di grande morbidezza, con un'attitudine decisamente catchy, un gusto melodico che a tratti suona molto brit (alcune cose mi ricordano una via di mezzo fra Sundays, Catatonia e Sleeper) e al contempo un coté leggermente spigoloso ed elettrico.

Tra tanti altri gruppi di quella scena che mi è capitato di sentire, i Sourmilk emergono proprio per l'ambizione di costruire pezzi rotondi e prodotti, pur in una onesta economia di mezzi, mischiando episodi più veloci e arrembanti a ballate acustiche in cui la voce di Jess emerge ancora più cristallina. 

Sick Girl, di per sé, è una delle canzoni dell'anno. 

01 agosto 2025

Fragile Animals - Tourist EP REVIEW


Nel 2023 l'uscita dell'album di debutto dei Fragile Animals mi aveva talmente colpito che alla fine dell'anno Slow Motion Burial era finito tranquillamente nella lista ristretta dei dischi dell'anno. 

Del gruppo australiano (un duo di base, oggi quartetto) avevo amato quella capacità di essere formalmente perfetto ed emotivamente scenografico che è tipica di band di forte impatto come Bleach Lab, Basement Revolver o Wolf Alice.

Il nuovo ep Tourist ci riporta alla grande nel mondo di chiaroscuri dei Fragile Animals con sei pezzi che ancora una volta mettono in luce la eccezionale bravura di Victoria e Daniel nel costruire i loro crescendo notturni, che scintillano di chitarre che partono sempre atmosferiche in un intreccio sottilmente obliquo ed esplodono a poco a poco di fragore elettrico (prendete l'avvolgente Sending Flares come esempio). 

Non c'è dubbio che la voce delicata e determinata insieme di Victoria Jenkins sia un notevole plus stilistico della band (in Into It è davvero una luce baluginante nella notte), ma sono soprattutto il mood oscuro, quasi drammatico (Allergic), e l'energia catartica di tutti i pezzi a rendere il gruppo di Brisbane così efficace ficcante in ogni cosa che fa. 

28 luglio 2025

Lightheaded - Thinking Dreaming Scheming! ALBUM REVIEW


Avete il nuovo dei Jeanines in rotazione da giorni e fate fatica ad allontanarvene? Vi capisco. Ma vi consiglio subito un altro disco che vi farà impazzire, e che - sì sì è così - è quasi più bello di quello di Alicia e Jed. 

Cynthia Rittenbach e Stephen Stec hanno fondato i Lightheaded (oggi un quintetto) quasi dieci anni fa nel New Jersey, ma hanno pubblicato solo un ep e un album prima di questo Thinking, Dreaming, Scheming!, che già dalla copertina fanzine-style grida indie pop a tutto spiano. 

In realtà, lo diremo poi, il disco è una somma di un ep nuovo e un ep vecchio, ma - specialmente se scoprite i Lightheaded solo ora - è un'ottima soluzione per entrare con tutti i piedi nel loro mondo atemporale.

Partiamo dai già citati Jeanines. Non c'è dubbio che i Lightheaded ne condividano l'etica e l'estetica, per così dire, facendo in sostanza parte della stessa scena e della stessa label (che è la Skep Wax di due leggende viventi come Amelia Fletcher e Rob Pursey), ma al contempo interpretano il genere con un'attitudine meno essenziale e con un retrogusto sixties molto più evidente, simile a gruppi come The Aislers Set. 

Same Drop, il pezzo che apre il disco (il lato A, quello nuovo), basterà probabilmente a farvi innamorare per sempre dei Lightheded. Siamo decisamente nel territorio scintillante dei girl groups alla Phil Spector, dei tambourines che sferragliano in aria, delle melodie di zucchero filato, ma anche in quello dei primi Belle & Sebastian, con un uso formidabile del violoncello e della tromba che sembra veramente una citazione degli scozzesi. Che meraviglia!

La successiva The Lindens, The Lindens, The Lindens! ci porta dentro una gioiosa danza vagamente hippy (un po' Fairport Convention), che rallenta e accelera continuamente.

Me and Jessica Fletcher alza i giri e lo fa, giustamente, nello stile anorak post punk dei Talulah Gosh o dei Tender Trap (ed è un omaggio doveroso e sorridente alla regina dell'indie pop). 

The View From Your Room ha quell'aria sghemba e centrifuga, soffice e puntuta al tempo stesso, che piace tanto agli Alvvays e già da sola merita applausi per la sua architettura sonora. 

Crash Landing Of The Clod sembra una outtake del primo album dei Camera Obscura, morbida, avvolgente ed obliqua come sapeva essere la band scozzese.

Con Mercury Girl inizia la side B dell'album, che in realtà è nient'altro che l'ep Good Good Great già edito nel 2023. L'episodio citato è il cuore pop di tutto il disco ed è un pezzo davvero peculiare oltre che ambizioso: sensuale a suo modo, e al contempo ironico, con una allure decisamente brit. Ecco, è qui che i Lightheaded evidenziano una notevole distanza dall'essenzialità lo-fi di tante band di genere (siamo partiti dai Jeanines) e puntano invece a creare un suono pieno (c'è davvero un florilegio di strumenti e cori) in cui è dannatamente piacevole immergersi. 

Una delizia come Orange Crimsicle Head - anche qui splendidi archi che ingentiliscono una struttura cantautorale acustica - ci riporta ancora nello stile di Tracyann Campbell (e ci fa venire un botto di nostalgia di quella scena lì). 

Se The Garden è una filastrocca folk giocosa, Patti Girl è una indie pop gem super frizzante che potrebbe venire tanto da una band della Sarah quanto dalla penna di uno Stuart Murdoch. E la geniale, (anti)romantica, malinconica e magnificamente retrò Love Is Overrated è la conclusione ideale per un'infilata di canzoni che non può che lasciare a bocca aperta. 

Album imprescindibile! Difficile immaginare di stare senza...