Cominciamo con lo straordinario EP dei francesi ocean of embers e il loro dream pop intriso di suggestioni shoegaze: tre canzoni soltanto, ma lunghe e formidabili! A seguire quello dei sempre ottimi Swim School.
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Cominciamo con lo straordinario EP dei francesi ocean of embers e il loro dream pop intriso di suggestioni shoegaze: tre canzoni soltanto, ma lunghe e formidabili! A seguire quello dei sempre ottimi Swim School.
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Il gruppo di Tiff Brown e Matt McTiernan (autori di testi musiche rispettivamente) appartiene stilisticamente a quella schiera di band - diciamo nello stesso campionato di Bleach Lab e Kindsight - che interpretano il dream pop in modo più sintetico e dinamico, sostenuto non da muri di elettricità ma da una immancabile trina di chitarre.
Nel caso dei Blanco Tranco la forte personalità vocale di Tiff e la torrenzialità delle sue liriche sono da sempre uno dei marker più evidenti della band: pezzi di sicura presa come Another Sheltered Life o Eyes Wide Shut - ma potevamo citarli davvero tutti e dieci - mettono insieme in maniera estremamente felice un'istanza post punk dai bordi quasi taglienti ed un'anima pop che rende tutto luccicante, avvolgente e piacevole.
Gli australiani si muovono con naturalezza totale fra l'immersione in un jangle pop di raffinata morbidezza (Baby Blue) e diafana sensualità (Cloud Talk) e l'atmosfera notturna, inquieta e assolutamente scenografica dei numeri più uptempo (Jacaranda).
Se l'attesa è stata lunga, il risultato la premia alla grande.
All'epoca mi era sembrato subito che il tratto distintivo della band londinese fosse la sua capacità di trasmettere gioia in modo quasi naïf, centrando la propria proposta su un jangle pop artigianale e di raffinata semplicità.
Lo stile colorato e decisamente folksy e cantautorale dei Sundries non è (fortunatamente) cambiato, e in queste nove canzoni ritroviamo quello stesso mood sorridente e programmaticamente spontaneo che ci fa capire al volo come i londinesi devono essere una straordinaria band dal vivo e che si può fare un'ottima scrittura e delle canzoni di grande piacevolezza senza particolari ambizioni produttive.
Negli episodi del disco si fanno amare la personalità vocale di Alice Player, gli intrecci elettro-acustici delle chitarre, alcuni inserti strumentali che fanno pensare subito ai primi Belle & Sebastian (All The Things About Me potrebbe essere una outtake di If You're Feeling Sinister ed è un piccolo miracolo), le liriche ironiche e intelligenti e, come dicevamo ma è giusto sottolinearlo, un'aria di onesto buon umore twee che può davvero svoltarti la giornata.
Baxter Barnham e Rachael Lam si muovono con grande naturalezza in un terreno che sta fra lo shoegaze più morbido e il dream pop: poderosi muri di chitarre sui quali fioriscono melodie di suggestiva dolcezza, secondo la lezione dei Pains Of Being Pure At Heart. Una interessante cover di Pacer dei The Amps di Kim e Kelly Deal non può che riportarci anche allo stile fragoroso e immediato delle Breeders e dell'indie dei '90 in generale.
Otto pezzi in tutto, artigianali nella fattura, molto coerenti stilisticamente e intrisi di un innegabile e contagioso entusiasmo creativo.
Del mondo Sarah i Blueboy possedevano - direi insieme ad Orchids, Sea Urchins, Hevenly, Another Sunny Day e Field Mice - l'etica e l'estetica in modo integrale e consapevole. Fra tutti i gruppi della mitologica label di Bristol, erano però indubbiamente i più eleganti ed eterei, caratterizzati da uno stile decisamente peculiare e riconoscibile, ricco di sfumature e sempre desideroso di sperimentare cose nuove, senza perdere la propria essenzialità sonora.
Dopo lo scioglimento, avvenuto nel 1998, i membri del gruppo presero strade diverse e diedero vita ad altre band (Lovejoy e Trembling Blue Stars le più rilevanti), per poi allontanarsi dalla scena per decenni.
Un paio d'anni fa Gemma Townley (oggi Gemma Malley) e Paul Steward sono tornati a suonare e scrivere insieme - Keith Girdler, il fondatore della band, è scomparso nel 2007 - raggiunti da Mark Cousens e Martin Rose.
Ed eccoci qui, sorpresa sorpresa, davanti al quarto disco di uno dei gruppi più importanti degli anni '90, che negli anni '90 era rimasto per forza. Un disco che, lo dichiariamo subito, è talmente bello che sembra davvero un piccolo miracolo spuntato fuori da un'epoca lontana.
La chitarra elettrica e il ritmo uptempo di One, il pezzo a dir poco tagliente che apre l'album, ci fa capire subito che i Blueboy avevano una inarrestabile necessità di ritornare, e lo hanno fatto con un'obliqua freschezza che - se non sapessimo che sono proprio loro - avremmo attribuito ai Jeanines.
Deux, l'episodio che segue - l'intero disco gioca curiosamente i suoi titoli inserendo numeri crescenti - estende il range espressivo ed emozionale a cui la band ci ha abituato da sempre, in territori eterei e solenni alla Cocteau Twins.
My Three ci fa invece rivivere quello spirito un po' naïf delle origini, con un'atmosfera folk pop di drakeiana perfezione nella quale la voce di Gemma, gli intrighi acustici di Paul e una cornice di archi brillano di luce propria.
4 AM è una perla indie pop di sapiente costruzione, che fa crescere la sua profonda malinconia attorno allo scampanellare jangly delle chitarre e poi prende a poco il volo sul pulsare dinamico del basso di Mark. Decine di gruppi di ventenni di oggi ammazzerebbero per scrivere un pezzo così. Stesso discorso che potremmo fare per una Five Minutes e una Seven Wonders, che potrebbero suonare i Kindsight o i Club 8.
Si sa, i Blueboy hanno sempre avuto un livello di scrittura pazzesca, incrociando un'apparente semplicità con l'ambizione di costruire strutture non del tutto lineari. I've Got Your Six ne è un ottimo esempio, ma anche la lenta, intima, delicatissima Perfect Ten (che assomiglia tanto alle cose degli Innocence Mission) e la notturna Twelve Men Good.
Se in Figure of Eight veniamo immersi in dense chitarre pienamente shoegaze alla Lush, Cloud Nine è uno di quei prodigi di aerea leggerezza che hanno caratterizzato la loro (breve) carriera fin dagli inizi, e la conclusiva Unlucky fa scorrere i titoli di coda su un paesaggio che è inquieto e soffice al tempo stesso.
Cosa dire in definitiva? A Life In Numbers è un disco di sommessa perfezione: potente e gentile al tempo stesso, prodotto con un equilibrio impressionante, molto centrato sulla personalità vocale di Gemma, raffinato di quella raffinatezza di cui ci siamo tutti innamorati ai tempi di Unisex.