10 settembre 2025

Blueboy - A Life in Numbers ALBUM REVIEW

Quando parliamo dei Blueboy parliamo della Storia (S maiuscola) dell'indie pop. Formati nel 1989, possono vantare di avere pubblicato 7 singoli e due album con la Sarah Records all'apice del suo splendore creativo (cioè fra il 1991 e il 1994), uno dei quali, Unisex, è considerato unicamente uno dei capisaldi del genere. 

Del mondo Sarah i Blueboy possedevano - direi insieme ad Orchids, Sea Urchins, Hevenly, Another Sunny Day e Field Mice - l'etica e l'estetica in modo integrale e consapevole. Fra tutti i gruppi della mitologica label di Bristol, erano però indubbiamente i più eleganti ed eterei, caratterizzati da uno stile decisamente peculiare e riconoscibile, ricco di sfumature e sempre desideroso di sperimentare cose nuove, senza perdere la propria essenzialità sonora. 

Dopo lo scioglimento, avvenuto nel 1998, i membri del gruppo presero strade diverse e diedero vita ad altre band (Lovejoy e Trembling Blue Stars le più rilevanti), per poi allontanarsi dalla scena per decenni.

Un paio d'anni fa Gemma Townley (oggi Gemma Malley) e Paul Steward sono tornati a suonare e scrivere insieme - Keith Girdler, il fondatore della band, è scomparso nel 2007 -  raggiunti da Mark Cousens e Martin Rose. 

Ed eccoci qui, sorpresa sorpresa, davanti al quarto disco di uno dei gruppi più importanti degli anni '90, che negli anni '90 era rimasto per forza. Un disco che, lo dichiariamo subito, è talmente bello che sembra davvero un piccolo miracolo spuntato fuori da un'epoca lontana. 

La chitarra elettrica e il ritmo uptempo di One, il pezzo a dir poco tagliente che apre l'album, ci fa capire subito che i Blueboy avevano una inarrestabile necessità di ritornare, e lo hanno fatto con un'obliqua freschezza che - se non sapessimo che sono proprio loro - avremmo attribuito ai Jeanines. 

Deux, l'episodio che segue - l'intero disco gioca curiosamente i suoi titoli inserendo numeri crescenti - estende il range espressivo ed emozionale a cui la band ci ha abituato da sempre, in territori eterei e solenni alla Cocteau Twins. 

My Three ci fa invece rivivere quello spirito un po' naïf delle origini, con un'atmosfera folk pop di drakeiana perfezione nella quale la voce di Gemma, gli intrighi acustici di Paul e una cornice di archi brillano di luce propria. 

4 AM è una perla indie pop di sapiente costruzione, che fa crescere la sua profonda malinconia attorno allo scampanellare jangly delle chitarre e poi prende a poco il volo sul pulsare dinamico del basso di Mark. Decine di gruppi di ventenni di oggi ammazzerebbero per scrivere un pezzo così. Stesso discorso che potremmo fare per una Five Minutes e una Seven Wonders, che potrebbero suonare i Kindsight o i Club 8. 

Si sa, i Blueboy hanno sempre avuto un livello di scrittura pazzesca, incrociando un'apparente semplicità con l'ambizione di costruire strutture non del tutto lineari. I've Got Your Six ne è un ottimo esempio, ma anche la lenta, intima, delicatissima Perfect Ten (che assomiglia tanto alle cose degli Innocence Mission) e la notturna Twelve Men Good

Se in Figure of Eight veniamo immersi in dense chitarre pienamente shoegaze alla Lush, Cloud Nine è uno di quei prodigi di aerea leggerezza che hanno caratterizzato la loro (breve) carriera fin dagli inizi, e la conclusiva Unlucky fa scorrere i titoli di coda su un paesaggio che è inquieto e soffice al tempo stesso. 

Cosa dire in definitiva? A Life In Numbers è un disco di sommessa perfezione: potente e gentile al tempo stesso, prodotto con un equilibrio impressionante, molto centrato sulla personalità vocale di Gemma, raffinato di quella raffinatezza di cui ci siamo tutti innamorati ai tempi di Unisex. 

Nessun commento: