18 settembre 2022

The Beths - Expert In A Dying Field ALBUM REVIEW

I Beths sono una di quelle band che da tempo non ha bisogno di presentazioni. Fin da quando, sei anni fa, mossero i loro primi passi nella vivace scena neozelandese, era chiaro a chiunque che possedevano un "qualcosa" di straordinariamente unico nel loro stesso impasto di gruppo che li faceva letteralmente brillare di luce propria, e che erano destinati ad un futuro di successi.
Successi che sono arrivati puntuali fin dal primo album (Future Me Hates Me, una fucina di singoli, che a risentirlo ora fa ancora impressione) e che hanno giustamente proiettato i quattro di Auckland una una dimensione mondiale. Jump Rope Gazers, due anni dopo, fotografava la band in una fase di transizione in cui il power pop originario stava acquisendo una maturità pop nuova, perdendo forse un po' di forza ma provando qualche sfaccettatura diversa. 
Da allora i Beths sono stati molto in tour, hanno pubblicato un significativo album live (che testimonia bene fra l'altro quanto siano amati in Nuova Zelanda), hanno registrato cose nuove, sono stati separati dall'ennesimo lockdown, sono tornati in tour, hanno registrato ancora (il chitarrista Jonathan Pearce nelle abili vesti di produttore), mixato a Los Angeles... ed eccoci qui davanti a Expert In A Dying Field.
I didici pezzi del disco ci raccontano sempre i Beths per quello che sono, senza artifici e con la consueta sorridente franchezza: una band che non ha perso un grammo dell'entusiasmo del debutto, tecnicamente ineccepibile, baciata dal songwriting brillante di Elizabeth Stokes, che oggi come mai si lancia in riflessioni sui rapporti umani e la loro durata (il titolo del disco a questo allude). 
Pezzi come quello che dà il titolo all'album, e poi Knees Deep e Silence Is Golden - non a caso la tripletta che apre il disco - imprimono subito con decisione il marchio stilistico dei Beths che ben conosciamo: ritmi moderatamente uptempo, chitarre frizzanti, melodie rotonde ed energetiche al tempo stesso, un florilegio di cori, e quell'idea di immediatezza intelligente e luminosa che i quattro maneggiano con tanta naturalezza da sempre. 
Nel resto degli episodi, Stokes e compagni, esattamente come avevano fatto nel secondo album, provano ad allargare con equilibrio la palette dei loro colori, prima di ritornare, nei numeri finali (A Passing Rain, I Told You That I Way Afraid) al punk pop gentile à la Weezer che fa parte del loro dna.  
Fin qui tutte le cose che ci aspettiamo dai Beths e che, inutile dirlo, sono costruite con la consueta bravura ed efficacia: funzionano, mettono di buon umore e fanno scuotere teste e piedi. In mezzo (ed in coda) i pezzi meno catchy e vagamente più ambiziosi: la morbida e distesa Your Side; la quasi beatlesiana I Want To Listen; la super propulsiva Head In The Clouds (con le sue chitarre muscolari e le armonie vocali bethsiane fino al midollo); la più articolata e scenografica Best Left (la mia preferita del lotto senza dubbio, con il suo andamento sognante e inquieto al tempo stesso); la emozionante, lunghissima, lenta e solenne 2AM, su cui scorrono i titoli di coda, in un crescendo di studiata delicatezza in cui chitarre, batteria e voci finiscono a rincorrersi in un girotondo che fa scomparire il paesaggio attorno e punta direttamente ad un cielo stellato australe. 
L'impressione che lascia in definitiva Expert In A Dying Field è quella di un album su cui Stokes, Pearce, Sinclair e Deck hanno speso insieme e con convinzione la consapevolezza del proprio valore, mescolando con misura pezzi che potranno esplodere dal vivo ed altri che riflettono un lavoro produttivo di pregio e resteranno credo confinati nel disco. 

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