I Tape Waves di Kim e Jarod Weldin sono da sempre una sicurezza, una di quelle band così discrete ed affidabili che spesso, nei lunghi intervalli tra un album e l'altro, si finisce per dimenticarsi di loro. Poi, quando esce un disco nuovo, come questo Bright, che è il loro quarto, io personalmente non posso che battermi il petto per averli trascurati ed esclamare "però, i Tape Waves, che bravi!" davanti ad uno stile che è davvero il loro e non teme imitazioni.
Parliamo di dream pop, ovviamente. In una accezione eterea, sfumata, che dallo shoegaze prende più il miele dell'elettricità, per quanto sia fatto comunque al 90% di chitarre (acustiche, jangly, distorte, sfrigolanti, psichedelicamente dilatate) che si mescolano e sovrappongono in un lungo abbraccio di delicati riverberi. Il restante 10% è la componente vocale, quasi sempre disciolta nella morbida eco melodica di ogni canzone: otto carezze di sfocata e affascinante bellezza, che non possono non ricordare la grazia senza tempo degli Slowdive. Con in più qualche incursione midtempo di immediato impatto (Invisible Lines e Waiting For The Night sono oggettivamente splendide) .
Un album, come sempre accade con la band di Charleston, in cui immergersi anima e corpo per goderne a pieno l'esperienza.
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