Non c'è dubbio che un pezzo come Low, che apre il disco con i suoi morbidi cuscini di synth e chitarre, abbia forti radici nello stile peculiare di Halstead e Goswell, così come nel dream pop delle origini, quello dei Cocteau Twins e delle Lush (a questo proposito, sentite Stuck e soprattutto Hands) e persino nello shoegaze dei My Bloody Valentine (Zeros). L'orizzonte sonoro del sestetto di Sacramento d'altra parte da sempre disegna questo tipo di paesaggi, con tutti gli omaggi del caso anche alla lezione dei The Cure più dilatati e sognanti (davvero palesi in Deceiver).
Il quarto lavoro sulla lunga distanza di Katie Haley e compagni arriva dopo un lavoro lunghissimo, che è partito prima della pandemia, l'ha attraversata e deve aver conosciuto un cesello produttivo quasi maniacale negli ultimi anni. Lo percepiamo bene in un pezzo come Sadness, con il suo scintillante florilegio di chitarre jangly, ma anche nella luccicante aura superpop, quasi quasi sopra le righe, di Kerosene, una canzone che potrebbe piacere sia ai fan di Hatchee che a quelli (esageriamo pure) dei Coldplay. E in quella gemma di chitarre e suoni elettronici che è True, che sembra presa a prestito dai Pains Of Beeing Pure At Heart più catchy.
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