C'è stato un periodo - fra i '90 e i '00 - in cui la Svezia sembrava una piccola patria ideale dell'indie pop. C'era tutto un fiorire di band, dai floreali Cradigans allo shoegaze dei Broder Daniel, dagli Happydeadman ai Popsicle, dai Sambassadeur agli Acid House Kings, che facevano musica con le chitarre in declinazioni diverse ma con le stesse radici affondate nel vasto giardino del post punk. Pochi se ne sono accorti a sud del sessantesimo parallelo, ma esisteva davvero un movimento, che con il succedersi delle nuove generazioni in verità non si è del tutto spento, come testimonia - ne abbiamo parlato di recente - un gruppo come i Makthaverskan.
Ho scoperto i Violet Cheri un paio d'anni fa quando uscì un singolo che si intitolava Scared To Be Happy (titolo per altro che gronda indie pop da tutti i pori): un gioiellino guitar pop che con il suo coinvolgente uptempo, la sua struttura a crescendo e la sua sfrontata verve melodica ti si stampava in testa nel giro di qualche secondo.
C'è voluto del tempo perché il carismatico Daniel Hoff, leader della band originaria del sud della Svezia (dove si trova la Sölvesborg che dà il nome all'album), decidesse di mettere insieme i singoli che si sono succeduti negli ultimi mesi e pubblicare finalmente il disco di debutto.
Disco che è, diciamolo subito, una bomba!
Fin dall'iniziale Trouble, con le sue chitarre croccanti, i suoi coretti deliziosamente sopra le righe, l'energia vocale spontanea e un po' sbilenca di Hoff, è chiaro che l'intero album si gioca tra una superficie luminosa e straordinariamente leggera e un cuore colmo di sofferenza adolescenziale, che proprio in questa dimensione saltellante e sorridente trova un travolgente sfogo catartico. C'era poco di allegro nell'essere un teenager non precisamente popolare nella provincia profonda di Sölvesborg, ci sembra di capire: è questo lo scrigno da cui sgorga copiosa l'ispirazione di ogni singola canzone dell'album.
Prendiamo Shy Hurricane, dove Daniel canta liriche come queste "I can't walk straight, I tremble / oh I'm such a mess / I invite death with open arms / and I will make a scene / and destroy the world" ma lo fa con una gioia straniante che il pezzo, un pop punk più pop che punk (come tutto quello che fanno i Violet Cheri), esalta con l'entusiasmo di una band di ragazzini che suonano e fanno festa nel garage dietro casa. Oppure Hey Honey Heaven dove sentiamo una cosa tipo "Oh summer takes its first breath / It's so beautiful / But I'm too strange to enjoy it" e allo stesso tempo ci viene una voglia matta di ballare.
Gli undici episodi del disco non staccano praticamente mai il piede dall'acceleratore e non c'è davvero un momento in cui venga meno la voglia di uscire e correre in giro salutando gli sconosciuti che passano e sorridendo alla vita. Tanto che quando le luci si abbassano sul numero finale Finest Hour, che è una lunga scenografica ballata di soffusa delicatezza, il fiatone si tramuta in un commosso afflato di tenerezza e lacrime. Daniel canta di sogni infanti e di delusioni che vogliono che tu ti arrenda, ma poi a poco a poco tutto torna ad avere perfettamente senso: "Lord knows, I'm not done yet / I'm gonna show them wrong / I'm not done yet / What am I waiting for / 'cause life has just begun / And I don't need anyone / This is my triumph!". Applausi.
Ci aspettavamo grandi cose da questa quasi sconosciuta band svedese, e la promessa è stata pienamente mantenuta. Sölvesborg è un album di canzoni magari imperfette, magari non terribilmente originali e ambiziose, ma brucianti di un'urgenza comunicativa pazzesca e che fanno prima di tutto bene all'anima.
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