07 ottobre 2022

Alvvays - Blue Rev ALBUM REVIEW


Per chi non lo sapesse, il Blue Rev è una bevanda alcolica - un po' vodka, un po' energy drink, un po' cola, insolitamente azzurra e, dicono, piuttosto dolciastra - che era molto popolare tra i teenager quando Molly Rankin e la sua tastierista Kerri MacLellan erano liceali nella sperduta Nuova Scozia. 

Se il titolo del terzo disco degli Alvvays va a pescare nella memoria della leader della band canadese (così come la buffa copertina, almeno credo), la suggestione per il (vasto) pubblico dei fans dovrebbe coincidere più o meno con un "ritorno alle origini", che è una strada che tutti i gruppi prima o poi imboccano quando finiscono le idee.

Niente paura: non è affatto così. 

Ma partiamo dall'inizio. Gli Alvvays non sono più "una band indie pop" già dalla loro apparizione sulle scene nel 2014: sono "una istituzione dell'indie pop", uno dei pochi gruppi di questi tempi che può vantarsi di essere una pietra angolare del genere, quelli a cui tutto viene, spesso banalmente, paragonato ("simile agli Alvvays", "cercano di assomigliare agli Alvvays", "ecco il tipico suono Alvvays", etc.). L'omonimo album di debutto è stata una bomba atomica deflagrata quasi all'improvviso, innescata da quel singolo che tutti sappiamo a memoria e che non ho bisogno di citare. Il seguito, Antisocialites,  allargava il campo e li consacrava definitivamente, lanciandoli in tour mondiali e mettendoli fra gli headliner di molti festival indie. Era il 2017 - un'era fa, se ci pensate, con tutto quello che è intercorso - e Molly Rankin e compagni già cominciavano a pensare alle canzoni per l'album numero tre.

Poi sono successe cose: un poderoso cambio di formazione alla sezione ritmica (dentro Sheridan Riley e Abbey Blackwell: bisognerebbe dire LE Alvvays ormai!), e poi la pandemia, un furto in casa Rankin che ha sottratto i demo dei pezzi nuovi, un allagamento della sala prove, il lockdown e una separazione fisica dei membri della band bloccati fra Canada e USA. Un anno fa il produttore Shawn Everett porta il quintetto a Los Angeles e lo spinge a suonare le canzoni nuove con uno spirito da live, mantenendone l'energia spuria. Canzoni che non sono più monopolio di Molly ma coinvolgono oggi anche il chitarrista Alec O'Hanley e Kerri. 


L'album quindi. Quello che aspettavamo con il batticuore da tanto tanto tempo.

Il numero iniziale, Pharmacist, è insieme una carezza e un cazzotto nello stomaco: la carezza ce la elargisce la melodia rotonda e cantabile a cui Molly Rankin ci ha abituato da sempre, il cazzotto ce lo assesta lo sfrigolante muro di chitarre che ci precipita addosso fin dai primi secondi e che i nostri ci fanno scalare con destrezza fino ad un finale in cui l'elettricità scappa da tutte le parti. Un piccolo perfetto diorama shoegaze in appena due minuti. 

Easy On Your Own continua il discorso del pezzo precedente e si innesta all'idea di dream pop di irrequieta delicatezza che gli Alvvays avevano abbozzato con quel capolavoro che era In Undertow. Le liriche cominciano a parlare con una rabbia misurata e tuttavia tagliente di una relazione finita male (ne risentiremo parlare). Le chitarre sferzano e grattugiano come non mai, ma non fanno male.

After The Earthquake potrebbe essere la Plimsoll Punks di Blue Rev: tessuto jangly sfavillate che si fa più spesso piega dopo piega e la prima melodia apertamente catchy, molto 80's flavoured, del lotto. Potrebbe sì, perché in realtà a metà c'è un cambio di ritmo che spoglia la canzone ad un sussurro, ed è uno di quei colpi di genio che - come altri nel disco - puntano a togliere il terreno sotto l'ascoltatore per poi rimetterlo a posto appena prima che ritocchi terra, in un finale esplosivo. Le liriche riflettono una storia del romanziere Murakami, ma probabilmente raccontano semplicemente del nostro complicatissimo oggi. 

Tom Verlaine incede su onde increspate di chitarre alla Jesus & Mary Chain che germogliano l'una sull'altra in elettrici layers di malinconia. Le liriche raccontano ancora una relazione sentimentale complicata. E' un pezzo di passaggio.

Pressed, densa, serrata, uptempo, funziona come se un pezzo degli Smiths fosse suonato dalle Lush. Il manuale del bravo critico musicale appiccicherebbe l'etichetta "post punk" ma è veramente qualcosa di inedito. E' un pezzo straniante e bellissimo. 

Many Mirrors è l'episodio più sognante del disco e forse uno dei più immediati: la struttura circolare si sviluppa, come in.molte canzoni degli Alvvays, intorno al chorus, e ci fa crescere intorno rampicanti di chitarre jangly e riverberi elettrici in un giardino quasi barocco. "Adesso che siamo passati attraverso così tanti specchi, non posso credere che siamo rimasti gli stessi" canta Molly: uno dei versi più belli dell'album, a mio parere. Prossimo singolo? 

Very Online Guy - terzo singolo estratto - ha di nuovo qualcosa di inusuale per lo standard Alvvays: la cadenza melodica è quella consueta, ma tutto sembra continuamente deviare in uno spazio franto fatto di echi e riflessi, tutto imbastito sui synth miracolosi e davvero impavidi di Kerri. Un capolavoro produttivo che affascina e un po' disturba, con una metafora perfetta fra i filtri dei social di cui il protagonista è dipendente e il filtro elettronico che stiracchia il suono di qua e di là e lo infarcisce di pattern incollati l'uno all'altro.

Velveteen pure è sorretta da un'anima synth-pop che testimonia di una ricerca sonora di nuovo rivolta al modernariato anni '80. Molly si porta in giro il pezzo con un afflato quasi scenografico nella seconda parte che a ma ricorda gli A Ah (non scherzo). Ed anche qui gli Alvvays giocano a montare e smontare la canzone da dentro, facendola comunque scorrere su binari veloci dall'inizio alla fine.

Tile By Tile parte obliquamente raffinata. Molly spinge la voce in alto e sembra Kate Bush. Il resto è piacevolmente esotico, con poderosi apporti di synth e un assolo avvolgente di chitarra.

Pomeranian Spinster è un divertito omaggio ai Ramones: punk che si prende in giro. Nulla di più. Una pausa per sciogliere la tensione accumulata sinora e prepararci per il capolavoro.

Belinda Says è - bisogna proclamarlo davvero - una canzone di bellezza quasi trascendentale. Uno di quei pezzi che capitano rari in una vita di ascolti, di cui percepisci l'energia già dalle prime tenui note di synth. Una "all chorus song" che - lo dicevamo poco fa - è nelle corde di Molly Rankin fin dagli esordi: sintetica e travolgente con il suo incipit in medias res, ma poi per nulla semplice nella costruzione. La Belinda del titolo è Belinda Carlisle, che nella nota hit radiofonica degli anni '80 cinguettava che "Heaven is a place on Earth"; la voce narrante del pezzo, che è incinta e deve prendere una decisione che le cambierà la vita, non è così ottimista, e tuttavia trova la forza per andarsene incontro ad un futuro incerto senza abbassare la testa, ingenua e testarda. Questa la narrativa del pezzo. Musicalmente è come se Rankin e soci avessero costruito una scatola magica che contiene, in due minuti e quarantacinque, tutto lo shoegaze e il dream pop mai suonato, e ce la spalancassero davanti all'improvviso come un vaso di Pandora che ci investe di elettricità, poesia, forza primordiale, miele, riverberi, armonia delle sfere, rumore, tenerezza e violenza, luci baluginanti, quiete e grida, chitarre, voci, synth che entrano l'uno nell'altro, crescono a spirale, entrano in un'iperspazio di mistica quiete e riprendono forza in uno spannung emotivo che fa venire voglia di piangere di gioia. Musica e poesia insieme, poesia e musica, in un unico virtuosistico gesto vitale.  

Bored In Bristol è un altro racconto di provincia, che si concretizza in un sogno di fuga, un po' come nell'episodio precedente. La cadenza è bizzarra e spinge verso un finale corale.

Lottery Noises è una piccola sinfonia power pop distillata in 3 minuti: un inizio di quieto diaristico autoironico intimismo (si parla ancora di un abbandono, pare di capire, e del desiderio di ricominciare) è seguito da un'architettura in crescendo che spinge sul pedale della catarsi e sembra infine riappropriarsi di quel suono guitar pop anni '90 da cui gli Alvvays erano partiti e che in Blue Rev è rimasto in sottotraccia. Pezzo magnifico. Lo immaginiamo già live... 

Fourth Figure chiude con un finale aperto il racconto che giace sul fondo di quasi tutti i pezzi: "ora che la sala si sta svuotando, sei ancora una parte di me, e lo so, giorni dopo, è il motivo per cui tu ancora esiti, ed io andrò". La voce, bellissima, di Molly. Archi sintetici. Una melodia da canzone teatrale di inizio Novecento. 

Dice Molly Rankin che Blue Rev non nasce da uno sforzo di "fare per forza qualcosa di diverso", ma anzi di continuare sulla strada tracciata, mescolando bellezza e ruvidezza nel modo più equilibrato possibile. E' senz'altro un buon riassunto del disco: la firma stilistica della band di Toronto è incisa a fondo in ognuno dei pezzi, però è indubbio che ci sia una poderosa percentuale di novità in quasi tutto ciò che hanno suonato. E di coraggio, perché - diciamocelo con franchezza - da loro tutti sotto sotto si aspettano una nuova Archie, una nuova Next Of Kin. E invece in Blue Rev c'è dannatamente di più: nessun indie anthem, forse, ma una tonnellata di idee che le tredici canzoni sembrano quasi contenere a stento, come se l'album catturasse in una foto perfetta e al contempo leggermente mossa un magmatico flusso di coscienza che attraversa sia le musiche che le parole. 

Riassumendo: in Blue Rev non troverete il guitar pop spigliato del disco di debutto, piuttosto lo sviluppo naturale dell'evoluzione cominciata con Antisocialites. Nella prospettiva generale è proprio il secondo album che, a questo punto, appare un punto di passaggio verso questo terzo lavoro, che ne completa le suggestioni con un lavoro di produzione che rasenta la perfezione. Ci sono senz'altro più citazioni anni '80, più shoegaze, più chitarre sfrigolanti, costruzioni inusuali e castelli sonori che si innalzano verso il cielo. Ma anche tanto tanto ardore melodico, qua e là una sottile tentazione di virtuosismo stemperata sempre da una forte dose di leggerezza, una temperie più eclettica che si aggrappa al solido perno centrale di quell'Alvvays touch che tutti cercano di imitare. Quella capacità di essere luminosamente catchy qualsiasi sia il contesto: sulle nuvole come dentro la tempesta. Un'attitudine che forse viene - mi piace pensare - dal fatto che la Rankin si è svezzata letteralmente con i primi tre dischi degli Oasis, altro modello inconscio che non viene mai citato ma è radicatissimo nel suono dei canadesi. 

Resta la sensazione profonda di avere davanti una band straordinaria nel senso letterale del termine, capace appunto di fare veramente solo cose fuori dall'ordinario. Un gruppo che ha già impresso il proprio nome in maiuscolo sia sugli anni '10 (Alvvays) che sugli anni '20 (Blue Rev, e sicuramente i dischi a seguire) e con il quale - come dicevamo all'inizio - l'intero movimento indie pop si dovrà per forza confrontare per sempre. 

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