L'album omonimo di Laura Stevenson (il sesto della sua carriera) la ritrae in copertina seduta sul divano di casa, con la figlia di un anno in braccio ed intorno le "piccole cose" che fanno la sua quotidianità: il cane, il pianoforte, la collezione di dischi, la copertina di Nilsson Schmilsson alla parete...
Chiaro che è una scelta programmatica, per un disco che - dopo tanti anni - riparte con il suo nome, il che senza dover lambiccare troppo significa rinascita. Rinascita dopo le vicissitudini di una vita non tanto facile (le tracce di disagio sono disseminate in tutti i suoi album precedenti) ma anche e soprattutto dopo una quarantena vissuta dapprima in gravidanza e poi con una creatura appena venuta al mondo da proteggere.
L'urlo catartico di State, il pezzo che apre il disco, sembra dire davvero questo, ed è l'unico momento davvero elettrico dell'album. Poi, però, negli episodi successivi ritroviamo subito quella dimensione di morbido intimismo che già avevamo amato in The Big Freeze e che, nella forma e nella sostanza, potremmo definire "classico". Del pop rock frizzante, un po' sfrontato e addirittura ballabile degli esordi rimane l'impronta melodica di fondo (Sandstorm è l'unico numero saltellante del lotto): qui domina un AOR intessuto di folk, prettamente atemporale, levigatissimo nella confezione e - non c'è bisogno di dirlo - scritto con la mano e la sensibilità di una delle grandi singer sonwriter dei nostri tempi. E, ovviamente, cantato con quella inconfondibile voce dal vibrato di seta che non si può non riconoscere subito.
Tra tanti dischi di cantautrici di oggi che suonano più o meno nel solco della tradizione - da Lucy Dacus a Julien Baker - Laura Stevenson potrebbe senz'altro sembrare stilisticamente il più "reazionario" di tutti, tuttavia c'è un cuore caldo e sanguinante di onestà, sentimenti, vita qui dentro che non può essere messo in discussione e batte in ogni singola nota. E Moving Cars è una delle cose più belle che Laura abbia mai scritto e cantato.
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