Sono passati cinque anni da quando Louis Forster, Riley Jones e James Harrison esordirono, diciottenni o giù di lì, con un album che sembrava gridare con sornione orgoglio che la lezione dei Go-Betweens e dei The Bats non era dimenticata nemmeno dalle nuove generazioni. E ne sono passati da tre dal "difficile secondo album" We're Not Talking, che poco aggiungeva alle cose buone e a quelle più acerbe del debutto.
Il trio di Brisbane è arrivato oggi al terzo disco, ma davvero molte cose sono cambiate. Forse loro stessi, i tre ragazzini talentuosi e sbarazzini di Up To Anything, sono cambiati non poco.
Li lasciamo come indie pop band imparentata con quella tradizione di essenziale e obliqua immediatezza che Louis Forster portava avanti quasi geneticamente (lo sapete, è il figlio di Robert). Li ritroviamo oggi prima di tutto cittadini del mondo, e poi soprattutto talmente cresciuti come musicisti da suddividersi il songwriting e le parti vocali fra tutti e tre, con Forster a rappresentare una sottile linea di continuità con il passato e Jones e Harrison a sperimentare cose diverse (Riley il versante più morbido e teatrale, no wave e catchy insieme; James, con la sua vocalità sghemba, uno psich-folk-surf straniante e piacevole). In più, un monumento vivente come John Parish nel ruolo di produttore deve avere ulteriormente aperto occhi e orecchie ai ragazzi australiani, sollevandoli di peso dai territori di genere in cui si muovevano per offrire loro una tavolozza molto più ampia dai toni (decisamente scuri) post-punk.
Ecco allora che da un lato le canzoni si allargano e si complicano (prendiamo Bathwater come esempio), con cambi di ritmo e d'umore, gli stili si alternano e si affastellano quasi in voluto disordine, la basilare triade chitarra-basso-batteria resta come fondamenta di architetture stratificate e a tratti imprevedibili dove si succedono sassofoni, synth che trasudano anni '80 da ogni nota, pianoforte, altre chitarre ed armonie vocali, a creare un wall of sound lussureggiante e notturno in praticamente ogni episodio. In alcuni momenti sembra di ascoltare una versione indie pop di Nick Cave (lo stile vocale di Forster è eloquente), senza forse il carisma del grande maestro australiano, ma con una poderosa, in fondo positiva e un po' folle dose di ambizione creativa.
Personalmente non ho ancora deciso se è una pietra miliare o un buco nell'acqua (l'iniziale formidabile In The Stone chiama pollici in su; i pezzi di Harrison... tutto l'opposto; l'apporto ampio della Jones quasi ovunque fa di nuovo propendere per il sì, tanto che alla fine sembra lei l'unico collante stilistico della band), ma senz'altro non è un disco che può lasciare indifferenti.
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