29 ottobre 2022

Polly Paulusma - The Pivot On Which The World Turns ALBUM REVIEW


Sembra passata una vita da quando Polly Paulusma esordì con un album, Scissors In My Pocket, che è tuttora una pietra miliare del cantautorato femminile di tutti i tempi, per quanto pochi se ne siano accorti. Personalmente conservo un ricordo molto nitido dello stupore provato davanti a questa timida ma risoluta ragazza inglese sbucata fuori dal nulla con una dozzina di canzoni che sembravano intrise di una forza poetica senza tempo, suonate con una chitarra folk, un pianoforte, un contrabbasso, una batteria jazz e spesso e volentieri un quartetto d'archi, a cuore aperto, con una grazia appena appena ruvida proprio come la sua voce. 

Ci fu, all'epoca - era il 2004 più o meno - una piccola hype nel mondo indie per Polly, in Italia soprattutto, grazie anche a una copertina conquistata sul Mucchio Selvaggio, che all'epoca contava qualcosa, e a numerosi live in giro per la penisola che ne consolidarono una piccola fan base. Il secondo disco, Fingers & Thumbs, uscito nel 2007, non godette dello stesso successo di critica, pur essendo un album onestamente bello, leggermente più orientato al pop rock. Da quel momento la musicista inglese si è presa i suoi tempi, si è dedicata alla famiglia, trasferendosi da Londra a Cambridge, ed ha fatto passare anni tra un'apparizione e l'altra: l'elegante e delicato Leaves From The Family Tree nel 2012, Small Feat Of My Reverie nel 2014 (quasi un ampio lato B del precedente: i due dischi andrebbero davvero ascoltati in sequenza), e poi l'episodio di filologia tra folk e poesia Invisible Music nel 2021. 

A quasi un ventennio di distanza dal debutto, The Pivot On Which The World Turns arriva, tanto inatteso quanto gradito, a fotografare la Polly di oggi. E nella foto, in modo sorprendente (ma forse nemmeno tanto), vediamo esattamente quella ragazza dallo sguardo onesto ed entusiasta che ammiravamo sui palchi di qualche club di provincia, con la chitarra a tracolla e quella voce così matura e versatile, con quel pugno di canzoni che travalicavano i generi, raccontavano storie anche drammatiche con la leggerezza naturale dei grandi narratori. Un po' invecchiata, certo, esattamente come noi, ma questo poco importa. 

Ecco, se vogliamo misurare subito i momenti di una carriera ormai lunga, possiamo dire subito che le canzoni di The Pivot non hanno nulla di meno di quelle, ormai mitiche, di Scissors, e ne riprendono in parte l'equilibrata sequenza di nudità acustiche ed eleganza quasi orchestrale, di gioia ed introspezione. Ma, lo diremo, con un risultato che pare davvero nuovo. 

C'è allora l'intimismo malinconico in punta di plettro di Snakeskin, la delicatezza melodica, corale, alcolica e sorridente di Back Of My Hands (quattro minuti che mostrano in modo palese come scrivere una canzone new folk orecchiabile, tutta melodia e hand-clapping, tenendosi a miglia di distanza dalla prevedibilità che ascoltiamo in giro), la gentilezza jazz/soul di Dirty Circus, l'apertura pop quasi sfrontata di Lumineer (il trattamento elettronico della voce è a dir poco coraggioso, e funziona). 

E poi parole e ricordi ed onde che si infrangono sulla spiaggia in quella magnifica costruzione narrativa che è Bracklesham Bay, uno di quei brani (come poteva essere Perfect 4/4 in Scissors) dove l'incedere della musica porta con sé il ritmo della storia e dove da un piccolo oggetto di nessun valore - un sasso raccolto sulla spiaggia, dimenticato in una tasca e ritrovato per caso - fiorisce un prezioso giardino di memorie. Il calmo crescendo dal racconto al canto, dal fingerpicking alle morbide spirali ascendenti degli archi, è uno dei marchi di fabbrica del songwriting di Polly, e qui è alla sua massima espressione. 

Con l'allegra Any Other Way risulta ormai chiara la tematica portante dell'intero disco: una quieta, sorridente, vitale contemplazione delle (piccole) cose che contano, potentemente immersa in una natura quotidiana e metaforica, la stessa che ritroviamo in Brumbles And Briars ("siamo rovi e cespugli cresciuti insieme, seminati dal vento e dalla pioggia"). 

L'adesione alla poetica (lirica e musicale) di Nick Drake è sempre stata una sottotraccia delle canzoni di Polly, ma nei solchi di The Pivot sembra emergere in modo più che evidente: nel fascino avvolgente di The Big Sky con i suoi archi alla Joe Boyd (ricordiamo, è il caso di farlo, che è la stessa Paulusma che li arrangia), nel pulsare rassicurante del contrabbasso, nelle screziature di piano e nel cuore acustico e antico di Tired Old Eyes.

In Sullen Volcano ritroviamo di nuovo quella capacità di Polly di giocare sulla tensione fra spoken words, silenzi ed esplosioni vocali. Una dimostrazione di virtuosismo, senza in realtà volerlo esibire. 

E, infine, ecco la primaverile freschezza folk di Robin ( se vogliamo continuare con i parallelismi, è una Something To Remember Me By che ha abbandonato inquietudine e ironia e ha trovato nella leggerezza una luminosa pace interiore) che ci consegna il messaggio sotteso all'intero album, insomma "il perno attorno al quale attorno tutto gira": quel "love like there's no tomorrow" che, lontanissimo da ogni tentazione di retorica, è posto tra le mani dell'ascoltatore come una carezza di una madre, o una stretta di mano di un'amica. Il punto di arrivo di una poetica della semplicità (che non è "facilità", anzi) che Polly ha portato avanti con caparbia lungo tutta la sua carriera.

The Pivot on Which The World Turns è in definitiva un album "umanistico": totalmente centrato sull'umanità come condivisione, formalmente privo di abbellimenti e al contempo perfettamente bello, non un cerchio che si chiude (siamo sicuri che Paulusma abbia ancora tanto da scrivere) ma sicuramente un anello che tiene insieme magicamente passato e presente. Un raggio di luce diurna che sembra spalancare le nuvole e riscaldare l'inverno, per usare ancora una immagine cara alla poetica di Drake, con la capacità di curare ogni tipo di ferita. Forse, un piccolo miracolo. 

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