02 giugno 2023

Beach Fossils - Bunny ALBUM REVIEW


Perché ci piace tanto il jangle pop? I motivi, a mio parere, sono due. Il primo sta nella forma aerea dei suoi stessi suoni: quelle chitarre scampanellanti, quale veloci trine di arpeggi elettrici che inseguendosi ti trascinano verso l'alto, quella idea di impalpabile leggerezza che si lega indissolubilmente ad una suggestione di sottile ma innocua malinconia, in tante declinazioni differenti certo, ma sempre nel giro aereo di questi paesaggi musicali di psichedelica delicatezza. Il secondo motivo sta nel fatto che parliamo di un modo di suonare che ha radici ormai lunghissime (i Byrds, la California del surf rock) e che non ha in verità mai smesso di germogliare, in nessuno dei sei decenni in cui possiamo ritrovarlo. Perché, diciamocelo, c'è lì dentro qualcosa di magico e forse di "chimico", che ha il potere di intriderci i pensieri e farci stare meglio.

Una lunga introduzione per celebrare ovviamente un album in cui i jingle jangle delle chitarre sono la linfa vitale, e non un album qualsiasi, trattandosi del quinto di una band di culto come i newyorkesi Beach Fossils.  

Introduzione che potrebbe servirsi anche soltanto delle prime note del pezzo che apre il disco, Sleeping On My Own, e tanto basterebbe per rispondere alla domanda con cui abbiamo aperto. Perché ci piace tanto questa musica? Perché è fatta della materia dei sogni, per rubare le parole del poeta. Una materia che Dustin Payseur, anima da sempre dei Beach Fossils, maneggia con l'arte di chi sa trasformarla in canzone con pochi abili tocchi di plettro.

La band americana, fin da quell'album omonimo che l'ha fatta diventare una piccola istituzione del mondo indie, ha sempre ibridato suggestioni post punk e tradizione jangly, arrivando ad un disco come Somersault, del 2017, in cui l'ambizione era quella di togliere dalla quota pop e aggiungere in quella della raffinatezza sperimentale (e infatti è il loro album più amato dalla critica, ma anche quello meno immediato ed efficace, a mio parere).

Bunny arriva dopo sei lunghi anni e ci mette davanti dei Bech Fossils che senz'altro riconosciamo al primo colpo, ma sembrano avere recuperato l'intenzione di scrivere le canzoni più catchy della loro carriera, pur restando nell'alveo della loro ormai consueta e quasi maniacale cura formale. Ecco allora la dolcezza acustica profumata di una brezza country di Run To The Moon, il carillon di Don't Fake Away con i suoi synth che citano apertamente The Cure, la psichedelia color pastello di (Just Like The) Setting Sun e Anything Is Anything con i loro ritornelli di catartica apertura, un singolo di intelligente piacevolezza come Dare Me, il dream pop alla Spaceman 3 di Feel So High, le chitarre avvolgenti e fragorose di Seconds, e infine l'outro di aerea morbidezza Waterfall. Il tutto in un flusso emozionale compatto e coerente, appena appena algido come i Beach Fossils sono sempre stati, ma intessuto di un fascino innegabile.

Nel novero delle band dream pop di oggi - band che per altro ai Beach Fossils spesso si sono ispirate - Dustin Payseur e compagni conservano lo status invidiabile di gruppo fuori dalle mode e dall'eleganza eterea e quasi fuori dal mondo. Non hanno (e non hanno mai avuto) l'ambizione di scrivere anthem di genere (e qui non ce ne sono), ma hanno un'intera carriera a testimoniare quanto siano ancora influenti nella scena indie pop. Bunny con i suoi undici episodi di luminosa bellezza dimostra come i quattro di New York abbiano ancora una inestinguibile passione di lavorare sui dettagli e cercare non la perfect pop song in generale, ma la "loro" perfect pop song.


Nessun commento: