Tutti ricordiamo bene quanto In Waiting, l'album di debutto delle Pillow Queens, sia stato dirompente: un potente soffio di vitalità, arrabbiato ed entusiasta al tempo stesso, intessuto di tematiche queer, piantato nel bel mezzo all'anno uno della pandemia. Le quattro musiciste di Dublino avevano infilato nel loro debutto tutta l'energia tipica di una live band rodata ed affiatata, riuscendo a dare un'idea di forza spregiudicata in ogni singola nota cantata o suonata.
Arrivate al secondo album dopo aver accumulato un notevole e forse inaspettato successo di critica e di pubblico nella scena indie, successo che ha imposto il nome Pillow Queens come "una di quelle band che bisogna davvero ascoltare", le ragazze sono ripartite giustamente da quello che sanno fare meglio: costruire canzoni di elettrica densità, cariche emotivamente e apertamente scenografiche, impostate sempre su una tensione iniziale che va a scaricarsi verso il ritornello e si impenna nei finali. Una formula che non sembra affatto studiata, ma è letteralmente nelle corde delle irlandesi fin dagli esordi e che trova nel perfetto impasto di chitarre, basso e batteria, nelle armonie vocali onnipresenti e soprattutto in due voci soliste di prepotente personalità come quelle di Pamela Connelly e Sarah Corcoran le proprie cariche esplosive.
Il terzetto iniziale Be By Your Side, The Wedding Band, Hearts & Minds, butta subito sul tavolo tutte le carte vincenti delle Pillow Queens, ed è francamente difficile trovare difetti in pezzi riuscitissimi e onestamente rock, che ti immagini al loro massimo eseguiti dal vivo e che qui hanno una finitura produttiva semplice ma curatissima.
Cosa manca allora, se qualcosa deve mancare? Forse l'effetto wow degli esordi (ma è normale). Forse quella marcata liberatoria antemicità che negli episodi più coinvolgenti di In Waiting era un fattore determinante. E' un difetto? Ho ascoltato a lungo l'album prima di scriverne, e tutto sommato direi di no. La mia impressione è che le ragazze abbiano deliberatamente scelto di arrivare al medesimo risultato - che è fare vibrare corde emotive nel loro pubblico, non intrattenere - contenendo i momenti "drammatici" e lavorando decisamente più sulle atmosfere. Prova ne sia che, parere personale, l'episodio che mi ha toccato di più è una Delivered che è tutta giocata su una ipnotica, corale e spiraliforme ripetizione e non sul chorus melodico. Ma anche un pezzo notevole come No Good Woman vira verso una dimensione cantautorale, mettendo senz'altro le voci in primo piano e le pur presenti frange elettriche in secondo. Esattamente ciò che succede nella conclusiva e programmaticamente catartica Try Try Try, che mette in scena l'ennesimo crescendo alla Pillow Queens ma lo fa con una crepuscolare delicatezza di fondo che tutto sommato è il sostrato comune ad ogni episodio.
Chi si aspetta dalle quattro di Dublino un nuovo In Waiting, probabilmente non sarà soddisfatto del tutto da Leave The Ligh On: il secondo album non è qui per spaccare il mondo come il primo. Tuttavia sarebbe stupido negare quanto lavoro e quanto talento ci sia dietro a un disco che fotografa le Pillow Queens in un momento di passaggio fondamentale nella loro carriera.
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