28 aprile 2022

Hatchie - Giving The World Away ALBUM REVIEW

Fin dagli esordi, la musica di Harriette Pilbeam ha scelto gli anni '80 come dimensione stilistica ed estetica. La ragazza australiana bionda e dolcemente timida con le Doc Martens ai piedi che cantava impalata liriche un po' ingenue davanti a vecchi televisori a tubo catodico nel video di Sure è senz'altro la stessa che ritroviamo oggi, sensuale e sicura di sé, nelle dodici canzoni del suo secondo album. Ma si stenta a riconoscerla.
Negli eightees del suo ep di debutto Sugar & Spice e anche in Keepsake, pur già in evoluzione, c'era un'idea di dream pop rotondo e luminoso, semplice nell'approccio e immediato nel risultato, assolutamente analogico nei mezzi. 
Negli eightiees/ninetiees di Giving The World Away c'è decisamente molto molto di più: le radici shoegaze / Lush / Cocteau Twins sono ancora presenti e talora emergono nell'uso della voce e nei riverberi delle chitarre (The Key ad esempio, o la scintillante This Enchanted), ma diventano assolutamente secondarie rispetto ad un apparato produttivo (Jorge Egelbrecht l'abile manovratore) che sembra parlare un linguaggio diverso e imbastisce un discorso che vuole essere "pop" uscendo dalle nicchie di genere e puntando ad essere radiofonico, spotifybile e abbastanza raffinato / patinato per finire anche nelle playlist easy listening di YouTube. 
Intendiamoci, quella di Hatchie non è una metamorfosi radicale: le canzoni sono le sue e si sente - hanno quel tocco di "zucchero e spezie" degli esordi, per l'appunto, quello che abbiamo amato sin da subito - ma nell'intera architettura di Giving The World Away c'è un'ambizione evidente di portare le influenze di cui Harriette non può giustamente fare a meno dentro la dimensione tecnologica delle grandi produzioni pop contemporanee. Un passo che la Pilbeam non è certo la prima a compiere, e che può conquistarle una platea davvero planetaria, se almeno uno dei dodici episodi del disco (io tifo per Quicksand, che ha quel tocco Lana del Rey che non guasta, unito ad un ritornello di furba potenza) riuscisse a imboccare la strada giusta (uno spot, una serie tv di successo, ecc.). 
E i pezzi, non è necessario dirlo, sono tutti di grande qualità e a tratti lasciano quasi a bocca aperta per la bellezza formale di tutto l'insieme, la cura maniacale di ogni particolare, la levigata pienezza del suono. Una forma che, bisogna sottolinearlo, è comunque sempre al servizio della canzone, e mai viceversa. Poi si può discutere se sia meglio la Hatchie degli inizi o questa, ma forse non è un esercizio così utile davanti ad una evoluzione così complessa. 

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