Chi mi segue sa che talvolta bazzico dalle parti di shoegazer e dintorni, anche se non sono per niente un esperto del genere. Un noto blog super settoriale che leggo volentieri ne è riuscito ad individuare almeno una decina di declinazioni, ma con queste manie tassonomiche ho sempre l'impressione che si vada fuori strada. Comunque, in base alla classificazione condivisa, i Panda Riot sarebbero inquadrabili come dream gazer, il che fa intuire un ibrido shoegaze + dream pop che già a scatola chiusa dovrebbe centrare i miei gusti.
Tanto più perchè Infinity Maps, che è il terzo album della band di Chicago in dieci anni di attività (sono dei perfezionisti i ragazzi), è davvero un disco stellare, al di là di ogni tentativo di ibridazione definitoria. Bene, abbiamo a che fare con una raccolta di 18 pezzi generalmente di tematica geo-astrale, per 50 minuti buoni di musica, quindi è già chiaro in partenza che Brian Cook e compagni non scherzano. La cosa (quasi) sorprendente è che, a fronte di una durata poderosa, i pezzi di Infinity Maps funzionano come una macchina perfetta, partendo da una solida base costruita sulle fondamenta stilistiche dello shoegazer (le svisate dell'iniziale Aphelion denunciano il copyright dei My Bloody Valentine) ma lavorando di complesse stratificazioni sonore che evidenziano una cura maniacale dei particolari. Ecco allora che già dal secondo pezzo, Helios (June 20th), esplode l'anima dream pop dei Panda Riot che - anche per ragioni di concittadinanza - non può non ricordare i primissimi Smashing Pumpkins, ovvero quelli che preferiamo. La voce dolcemente riverberata di Rebeca Scott, la ricerca di un melodismo onirico ed immediato al tempo stesso e i muri sonori liquidi e avvolgenti dominano tutto il resto dell'album, con alcuni episodi (Ghostling, Arrows, New Colors) più riusciti di altri, che viene volgia di ascoltare e riascoltare perdendosi nelle loro spirali.
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