Best Albums : 2015

25         Eyelids – 854 
Di età media intorno ai quaranta, i 5 Eyelids, basati a Portland Oregon, sono musicisti navigati che hanno suonato in mezzo catalogo indie degli ultimi vent’anni senza forse che nessuno se ne accorgesse. “854” è quindi un debutto sui generis, costruito su una cultura e un’esperienza musicali da iniziati. Il suono della band è però ben definito e circostanziato: in effetti non c’è un solo accordo prodotto dagli Eyelids che non porti impressi i cromosomi dei Big Star, riletti con la stessa intelligenza e leggerezza con cui lo fecero i Teenage Fanclub o i primissimi REM. Non c’è forse un vero pezzo memorabile, ma quanta qualità! E quanta nostalgia…  
 
24          Air Waves – Parting Glances 
Secondo album del progetto sorto attorno alla musicista americana Nicole Schneit, e deciso passo in avanti in termini di songwriting e di produzione. Le canzoni di “Parting Glances”, partendo da una onesta essenzialità voce/chitarra, trovano sempre il loro crescendo dinamico e il loro sfogo melodico, mantenendo con coerenza lo stile molto personale, apparentemente anti-emotivo ma in realtà profondo ed ironico, di Nicole.  

23 Chris Kiehne – The Holy Court Of Baltimore 
Professore di letteratura a tempo pieno e musicista per passione, Chris Kiehne è uno dei segreti meglio conservati della scena cantautorale alt-folk americana. Il suo nuovo album porta avanti lo stile colto ma essenziale delle produzioni precedenti, con una serie di canzoni acustiche di grande intensità, che trovano nelle armonie vocali e nei climax dinamici i loro indiscussi punti di forza. “The Basilisk” è un piccolo capolavoro.   
 
22    Mikal Cronin – MCIII 
Cos’altro dire di Mikal Cronin che non sia già stato detto quest’anno? Molti lo amano, altrettanti non capiscono quelli che lo amano. Al di là di tutto, MCIII è un album che non passa inosservato, con un cuore pop ed un involucro fatto da una variopinta corazza di chitarre distorte, archi, pianoforte, cori e quant’altro serve a creare il wall of sound tanto caro al muiscista losangelino. La potenza antemica di pezzi come “Turn Around” è indubbia, così come la tendenza a ripetere la stessa formula all’infinito, ma Cronin è così, piaccia o non piaccia. 

21    This Is The Kit – Bashed Out 
Denso, introspettivo ma al contempo melodicamente diretto, il songwriting dell’inglese Kate Stables raggiunge con il suo terzo album uno stato di grazia. Le canzoni di “Bashed Out” si stratificano con abilità ed equilibrio a partire da un tessuto folk, emergendo a poco a poco dalla loro intensa sostanza emotiva per librarsi a mezz’aria in un climax sonoro che utilizza di volta in volta strumenti diversi ma mira alla medesima idea di inattesa leggerezza. Filastrocche assassine come “Magic Spell” e ballate invernali come “Nits” si alternano in una malinconica altalena.  
   
20     Seapony – A Vision 
Arrivato al terzo album, il trio di Seattle conferma la sua propensione ad un indie-pop leggiadro e dinamico,  saldamente ancorato alla tradizione: pezzi di due minuti e mezzo, aggraziata voce femminile, melodie limpide, trine di chitarre squillanti, ritmiche di aerea fluidità. Tutto gira alla perfezione nelle canzoni di “A Vision”, nella ideale dolcezza di un crepuscolo estivo sul Pacifico. 

19      Little May – For The Company 
L’ep di debutto delle australiane Little May aveva già mostrato una capacità notevole nel creare attorno ad una matrice folk delle trame sonore più intricate ed un’atmosfera di tesa oscurità. Per incidere il loro primo album le tre ragazze di Sidney si sono affidate ad Aaron Dessner dei National, che ha espanso ulteriormente il suono delle Little May  per fortuna senza eccedere, dando anzi alle 11 canzoni del lotto un’impressione di raffinata compattezza e di solida personalità. Ovunque grande dinamismo, armonie vocali e notturna inquietudine.       

18 The Innocence Mission – Hello I Feel The Same 
Consolidando una lunga e rispettabile carriera nella scena alt-folk americana, i coniugi Karen e Don Peris danno vita ad un nuovo episodio della loro “Missione Innocenza”, nome che esplicita in modo evidente il loro approccio alla musica. Le canzoni del nuovo album non si distanziano dalle splendide produzioni precedenti, proseguendo sulla medesima strada acustica e minimale, disegnata a pastello, cesellata con cura dal quieto fingerpicking e da poche note di pianoforte e valorizzata dalla voce onesta e misuratissima di Karen.  

17       Eskimeaux – O.K. 
La newyorkese Gabrielle Smith ha un passato di cantautorato sperimentale dove il talento non andava di pari passo con i risultati. Riprendendo in buona parte brani già pubblicati e resuscitandoli nel mondo del pop alternativo è nato questo “O.K.”: uno scrigno di canzoni dall’eterea anima folk e dalle vesti essenziali (un po’ di elettronica mette l’impalcatura decisiva su uno scheletro acustico), in cui il cambio di ritmo centrale in crescendo sembra quasi un rito propiziatorio. Espediente che trasforma davvero le eteree composizioni di Eskimeaux in piccoli energici inni  

16    Owl & Mouse – Departures 
Facile considerare gli Owl & Mouse come un side project degli Allo Darlin’ (il bassista è lo stesso e il songwriting è davvero assonante), tuttavia la band di Hannah Bottning sembra puntare più in alto, ad una forma personale di indie-pop in grado di muoversi da una dimensione acustica minimale di stampo folk, fino ad arrangiamenti più complessi e variegati, mantenendo un’attitudine introspettiva e notturna che si sposa perfettamente alla raffinatezza della produzione.   

15     Yucatan – Uwch Gopa’r Mynydd 
A patire da un background assolutamente folk, i gallesi Yucatan costruiscono i loro (più o meno lunghi) brani con la stessa stratificazione sonora utilizzata dai Sigur Ròs: il risultato è onirico e bucolico al tempo stesso, misurato ma ricco di soluzioni strumentali (glockenspiel, fiati, archi, pianoforte, sinth, chitarre acustiche ed elettriche…), in definitiva suggestivo e unico nel suo  genere, anche grazie all’uso delle liriche nella loro lingua madre.     

14     Petal – Shame 
Può darsi che la giovanissima Kiley Lotz, da Scranton Pennsylvania, non sarà mai nel gotha del cantautorato femminile americano (oddio, se c’è entrata Cat Power…), ma è una che sa scrivere canzoni e non ha paura di diventare “pop”, rivestendo di sana elettricità una serie di composizioni che in una dimensione più intimamente tradizionale passerebbero inosservate. Un brano come “Tommy”, che vale l’album (ed è la mia canzone dell’anno), è la dimostrazione di come si possa essere spontanei e terribilmente efficaci senza bisogno di trucchi produttivi e ammiccamenti alla critica. Vigore e tenerezza . 

13     Julien Baker – Sprained Ankle 
Disco di debutto assoluto per questa diciannovenne del Tennessee, che nel complesso è registrato come un demo, in quasi esclusiva solitudine, voce e chitarra. Scelta ardua, a meno di essere molto bravi o di avere delle canzoni in grado di reggersi in piedi da sole. Ma “Sprained Ankle” mostra fin dal primo ascolto che le frecce all’arco di questa ragazza sono tante: nei 9 pezzi dell’album l’ispirazione di Julien risuona con un’urgenza espressiva enorme, nella linearità del suo fingerpicking, nelle note sussurrate e in quelle gridate, nelle poche ma precise coltellate elettriche. I paragoni con Sharon Van Etten sono azzeccati, ma Julien ha una personalità ancora più forte.  
    
12    The Tamborines – Sea Of Murmur 
Quello che colpisce dei veterani brasiliani (di stanza a Londra) The Tamborines è la pura semplicità con la quale, dopo tanti anni, ancora producono canzoni di totale freschezza.  Come tradizione vuole, l’indie-pop di Lulu Grave e Henrique Laurindo è votato alle chitarre jangly, ai ritmi uptempo, alla maniacale pulizia dei suoni e alla immediata piacevolezza melodica.  

11     Laura Stevenson – Cocksure 
Al quarto disco di una carriera mai decollata come meritava, la newyorkese Laura Stevenson sembra cogliere nell’aria la stessa elettricità statica condivisa quest’anno da altre cantautrici (noi qui parliamo di Waxahatchee e Petal) e la convoglia in una compattissima serie di pezzi esuberanti, muscolari e orecchiabili, pieni di ironia e spontaneità, tradizionali nella loro confezione ma mai scontati.    

10   Mammoth Penguins – Hide And Seek 
Punk? C86? Power pop? Indie classico? C’è tutto questo frullato insieme nell’esordio discografico di questo terzetto inglese capitanato dalla talentuosa Emma Kupa. La formula è in fondo la più semplice del mondo: chitarra, basso, batteria, voce. La cosa più difficile è essere convincenti ed efficaci con pochi ingredienti essenziali, ma Emma e compagni ci riescono con grande intelligenza ed equilibrio dal primo al dodicesimo episodio dell’album, sparando anzi alcuni ruvidi e irresistibili inni alternativi come “Strenght In My Legs” e “When I Was Your Age”.  

9      Widowspeak – All Yours 
Arrivati al terzo disco come Widowspeak, i newyorkesi Molly Hamilton e Robert Earl Thomas hanno lasciato fisicamente la metropoli per trasferisti nella campagna delle Catskills. Ma, sorprendentemente, il suono di “All Yours” ha abbandonato le evidenti radici folk del passato per immergersi in un indie-pop ben poco rurale e invece molto raffinato. Le 10 canzoni del lotto riescono in effetti nell’impresa inusuale di infilarsi tra i generi con navigata abilità, producendo un effetto di straniante piacevolezza: i ritmi moderatamente uptempo, la dilatazione dei tempi e le morbide melodie di Molly fanno pensare ad una sorta di dreampop semiacustico, ma le chitarre (e l’armonica) di Robert, alludono senz’altro alla tradizione folk dalla quale i Widowspeak sono partiti. 
    
8    Westkust – Last Forever 
Difficile non pensare ai Pains Of Beeing Pure At Heart ascoltando l’album d’esordio di questo quintetto di Goteborg. Lo stile è quello: melodie zuccherine disegnate con mano ferma su un muro di chitarre distorte da shoegazer, ritmiche poderose, voci maschile e femminile che si alternano nelle strofe come da canone indie-pop.  I Westkust aggiungono al tutto una ruvida freschezza che alla band americana manca da un po’ e che – per gli scandinofili – non può non ricordare le indie stars Broder Daniel dei primi ’90.  

7   The Sun Days – Album 
Giovanissimi, totalmente inesperti ma pieni di entusiasmo adolescenziale, gli svedesi Sun Days (nome e grafica che trasuda brit-pop) sono comparsi all’improvviso con un album già pronto che già ad un primo ascolto sembrava un mezzo miracolo. La voce potente e deliziosamente immatura di Elsa Fredriksson dà riconoscibilità immediate al suono sfrontatamente brillante della band, che senza averne l’aria azzecca almeno cinque o sei micidiali hook melodici da applausi. Le carte sono in regola per sfondare, tuttavia ad oggi non è perfettamente chiaro (nemmeno a loro stessi forse) cosa vogliano fare da grandi questi ragazzi.    
 
6   Best Girl Athlete – Carve Every Word  
La scozzese Katie Buchan, a.k.a. Best Girl Athlete, ha inciso questo suo debutto all’età di 15 anni. Ora, non sappiamo di preciso quanto ci sia di suo in queste 13 canzoni, oltre alla voce (che è morbida e intrigante) – ed in effetti gran parte del lavoro lo fa suo padre, che è un musicista folk – ma resta il fatto che “Carve Every Word” è un disco nel suo genere perfetto, ricco di un fascino bucolico nordico e misterioso, dove una dimensione cantautorale acustica e crepuscolare (tra Nick Drake ed Elliot Smith) si spalanca a dinamiche inattese e talvolta sorprendenti (“Seven Seconds” per esempio, con il suo entusiasmante finale funk, oppure le aperture corali di “Several Lonely Minutes”). Disco folk-pop dell’anno.  

5   Waxahatchee – Ivy Tripp 
Celebratissmo dalla critica, il terzo album di Katie Crutchfield con il moniker Waxahatchee ha evidentemente portato alla consacrazione della musicista dell’Alabama come cantautrice indipendente dell’anno. “Ivy Tripp” è in effetti un disco complesso e coraggioso, dove la voce e la capacità di scrittura di Katie danno vita a 13 canzoni all’apparenza ruvide ma terribilmente efficaci nella loro vigorosa urgenza, sia quando si affidano all’elettricità delle chitarre sia quando rallentano in un minimalismo magnetico. E poi, su tutto, c’è “Summer Of Love”, che è già un piccolo classico senza tempo.  

4    Trust Fund – Seems Unfair 
Al secondo album in un anno dopo un esordio non indimenticabile, l’esuberante Ellis Jones ha messo a fuoco la produzione senza abbandonare l’indole DIY che gli è congeniale. La forza dei suoi Trust Fund sta senz’altro nella capacità innata di creare dinamiche nelle canzoni (cambi di tempo e di umore, esplosioni di chitarre, armonie vocali dove meno te le aspetti), elargendo hook melodici con sfrontata generosità, uno dietro l’altro, senza quasi prendere fiato. Lo stile può assomigliare a quello dei primi Weezer, ma è evidente che nella cultura musicale di Jones c’è anche molto altro.
            
3    Model Village – Healing Centre 
“Sunlight”, il brano che apre l’album dei Model Village, è come una tenda appena mossa da una brezza primaverile. Ti lascia intravedere cosa sta dietro – un paesaggio lontano, forse un’alba tra le nuvole – ma non del tutto. Poi, all’improvviso, la tenda si spalanca e la luce inonda tutto. Una luce melodica che nei restanti nove pezzi del disco splende meridiana, dando vita ad una serie di gemme indie-pop sorridenti e gentili, profumate di Prefab Sprout e Belle & Sebastian, suonate e prodotte artigianalmente ma con una assoluta cura dei dettagli. Ciò che colpisce dei Model Village non è certo la loro originalità, ma è la capacità di fare canzoni pop. Capacità che i sei ragazzi inglesi possiedono con enorme spontaneità e che mettono in pratica apparentemente più per divertirsi che per farsi strada nella scena indie. Lo prova il fatto che il disco è stato poco e superficialmente recensito in patria, passando sopra a brani come “Junction 30”, “Funny Things”, “Claude Loves Marcel”, che meriterebbero applausi entusiasti.    

2   Kid Wave – Wonderlust 
Chitarre potenti, melodie di spietata immediatezza e soprattutto la voce calma e sensuale della diafana Lea Emmery. Sono questi i punti di forza dei londinesi (ma Lea è svedese) Kid Wave.  Tra tante band che tentano un revival dello shoegazer (o dream pop, o come volete voi) mai davvero passato di moda, i Kid Wave – spuntati veramente dal nulla prima dell’estate – hanno una marcia in più e non c’è niente da fare.  Il fatto è che tutte le 11 canzoni di “Wonderlust” letteralmente ti esplodono addosso, ti fanno a fette con le lame dei loro hook melodici, ti infilano in un’altalena ritmica che per 40 minuti ti fa girare la testa e alla fine ti lasciano stremato e felice. Prendete una canzone come “All I Want”, mettete il volume al massimo, lasciate l’energia fluire.  E poi ricominciate da capo. Una nota di merito anche per la copertina: la migliore dell’anno.   
   
1 Totally Mild – Down Time 
Il 2014 è stato senz’altro l’anno dei Fear Of Men. Dagli antipodi rispetto alla band inglese vengono gli austrialiani Totally Mild, ma le assonanze nello stile sono davvero tante: la voce di cristallo di Elizabeth Mitchell, le chitarre jangly che tessono stoffe liquide, le melodie suadenti appoggiate con nochalance su ritmiche quasi marziali, e soprattutto quelle atmosfere di inquietudine trattenuta, di cerebrale introspezione, che avevamo adorato in “Loom”.  E’ calda e sfuggente allo stesso tempo la musica dei Totally Mild, volutamente contraddittoria, misteriosa come la copertina dell’album, essenziale e raffinatissima insieme, così immediata e però così sorprendente nei suoi cambi di ritmo (sentite “The Next Day” o “Work It Out”), così sottile e perfetta che sembra sempre doversi spezzare da un momento all’altro, così fluida che sembra scorrere senza soluzione di continuità, un brano dopo l’altro come perle sfilate da una collana. Quasi nessuno se n’è accorto nella scena indie-pop, ma il 2015 è stato l’anno dei Totally Mild.  

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