22 settembre 2017

The Pains Of Being Pure At Heart - The Echo Of Pleasure [ALBUM Review]

Dieci anni sono passati da quando Kip Berman, Alex Naidus e Peggy Wang fondarono The Pains Of Being Pure At Heart, scrivendo una delle pagine più imprtanti ed entusiasmanti della storia dell'indie pop. I primi due album dei Pains, nel loro perfetto caleidoscopio di melodia ed energia, muri di chitarre e zucchero filato, sono stati a loro modo l'adolescenza della band, ed una nuova adolescenza per un genere che dalla metà dei '90 viveva di stenti e nostalgie. Poi, come ben sappiamo, la band non è stata più una band, diventando sempre di più l'estensione di Berman, con nuovi turnisti ma conservando intatto il marchio. Days Of Abandon, il terzo album del 2014, ci era parso un momento di passaggio, ambizioso e iper-prodotto, piacevole e curatissimo ma privo dell'abbrivio ideale degli esordi. Non memorabile, insomma.
The Echo Of Pleasure arriva in un momento particolare della vita del musicista newyorchese: sposo e papà novello, sempre più cantautore e sempre meno leader di una vera e propria band.  Insomma, arriva esattamente in quel punto in cui l'adolescenza è davvero finita, anche artisticamente, e bisogna diventare saggi e adulti. 
Non è difficile leggere in questo modo le nove canzoni del quarto album dei Pains: la spontanea feroce gioia dei primi dischi non c'è più, ma al contempo è sparita anche l'ambizione un po' intellettualoide di trasformare una felice intuizione (quella di mischiare twee pop, shoegaze, Smashing Pumpkins, suoni anni '80 e inquietudini '90 e agitare la bottiglia prima di farla esplodere) in un percorso di pop baroccheggiante per hipster esigenti. Insomma, abbiamo davanti un disco "adulto": misuratissimo, molto pensato, ma insieme terribilmente vivo, vivace, pieno di canzoni che portano impressa nei cromosomi quella capacità antemica che è connaturata al songwriting di Berman. 
Chitarre poderose, synth e ritmiche di dinamica semplicità pervadono tutti gli episodi dell'album, dall'iniziale adorabile My Only al singolo un po' piacione When I Dance With You, dall'esuberanza super-melodica di Anymore e Falling Apart So Slow al tripudio ancora più che super-melodico di So True (la voce è quella meravigliosa di Jen Goma degli A Sunny Day In Glasgow, Dio la benedica). In verità un po' di horror vacui al buon Kip Berman è rimasto: non c'è un momento di pausa, non c'è un calo di tensione, "tutto è illuminato" come diceva il libro, con la studiata eccezione del pezzo finale, Stay, che è una ballata decisamente scenografica. E, alla fine, vedendo anche le liriche, emerge la natura davvero pop di tutto il lavoro, con un'insistenza programmatica su ritornelli iterati e cantabili e liriche che in definitiva sono tutte dichiarazioni d'amore. 
Non si parla certo di un capolavoro, badate bene, ma trovatele voi tante altre band indie pop capaci di scrivere canzoni con questo tiro, che vi fanno venire voglia di alzarvi e ballare con le cuffie in testa. 
Buona vita, Kip. E lunga vita ai Pains.  


 

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