24 marzo 2023

Flyying Colours - You Never Know ALBUM REVIEW

A dispetto da ciò che molti pensano, lo shoegaze non è un reperto archeologico datato sullo scarico fra gli anni '80 e '90: è decisamente vivo e vegeto nello stile di centinaia di band di oggi che amano le melodie circolari e collezionano pedaliere di effetti per le loro chitarre.

Se prendiamo un gruppo come i Flyyng Colours, il discorso si fa più complesso e interessante, perché da quando gli australiani hanno cominciato a pubblicare le loro prime cose (dieci anni fa) fino ad oggi la loro adesione al genere è una sorta di panottico di tutte le possibili declinazioni che lo shoegaze prese già nella sua età d'oro e che tutto sommato sono proseguite lungo filoni che hanno preso nomi diversi: semplificando un po', l'ortodossia di My Bloody Valentine con il suo suono liquido e inafferrabili e le voci sciolte negli strumenti, l'approccio più squadrato e spesso catchy dei Ride, e quello morbidamente sognante e oscuro degli Slowdive. 

Ecco, la band di Melbourne da sempre percorre tutte queste strade insieme, cercando una sorta di pietra filosofale di genere, che negli anni ha generato alcuni pezzi memorabili come Waygravy o Running Late, che definiscono bene lo stile peculiare dei Flyying Colours sempre più verso un dream pop dinamico, vigoroso e melodico al tempo stesso.

Non fa eccezione l'ultimo (terzo) album di Brodie J Brummer e compagni, che fin dall'iniziale Lost Then Found setta da subito il distorsore delle chitarre e mette in mostra, episodio dopo episodio, la grande bravura della band nel mescolare elettricità e melodia con una suggestiva immediatezza, alternando e mescolando efficacemente sognante delicatezza e fragorosi muri sonori. 

Canzoni come I Live In A Small Town, Do You Feel The SameBright Lights e Never Forget sono forse le produzioni migliori dei Flyyng Colours dagli esordi e testimoniano quanto la band abbia creduto nel suo progetto fino a diventare oggi forse la più credibile erede dei mostri sacri citati sopra. 

20 marzo 2023

The Lost Days - In The Store ALBUM REVIEW

Ha senz'altro un qualcosa di black Comedy l'inizio della storia dei The Lost Days, se è vero che Tony Molina e Sarah Rose Janko si sono incontrati a un funerale, per poi finire a condividere le proprie passioni musicali in un negozio di liquori (è quello del titolo), in cui hanno scritto i dieci pezzi di questo loro album di debutto.

Tony a San Francisco non è un novellino e i suoi Ovens sono stati una piccola istituzione della scena jangly locale. Sarah da parte sua ha già pubblicato diverse cose come il moniker Dawn Riding e senz'altro condivide con il nuovo compagno di viaggio un'attitudine di malinconica morbidezza folk.

I due dichiarano a gran voce il proprio amore per i Byrds e i Guide By Voices, e in effetti nelle canzoni di questo In The Store ci sono sia la cristallina rotondità dei primi che la contagiosa essenzialità dei secondi: raramente si superano i due minuti di durata, le chitarre sono un delizioso misto di pop da cameretta e scampanellii jangly, e pure non c'è un solo momento che non colpisca per la sua imperfetta, spontanea ed efficacissima perfezione. Prenderei giusto come esempio il minuto e 6 secondi di For Today, che profuma di un'intera stagione di indie americano (quello dei Novanta) denudandola di ogni elettricità fino a mostrarne l'anima, in uno stile che non è affatto lontano da quello di Elliot Smith. Discorso che si può fare per quasi tutti i pezzi dell'album che, se dobbiamo trovare davvero un difetto, dura così poco che alla fine ti lascia ancora con l'acquolina in bocca.

04 marzo 2023

En Attendent Ana - Principia ALBUM REVIEW

Sono arrivati al terzo album i parigini En Attendent Ana e con questo Principia sembrano davvero muovere con decisione nuovi passi avanti rispetto al già pregevole Juillet

Margaux Bouchaudon e compagni (alcuni nuovi rispetto alla formazione originaria) portano avanti un'idea di indie pop sperimentale che sta in un incrocio tanto improbabile quanto affascinante fra Fear Of Men, Alvvays e Stereolab, in cui convivono in modo peculiare una scontrosa ed essenziale spigolosità post punk ed una diffusa morbidezza melodica.

I numeri migliori vengono fuori quando i ritmi virano verso l'uptempo e le architetture dei pezzi trovano la propria incalzante quadratura attraverso passaggi intricati (i 6 minuti di Wonder dimostrano bene lo stile ambizioso dei francesi), ma anche quando i fiati di di Camille Fréchou si prendono la scena dando al tutto un retrogusto di raffinatezza jazz. 

Non un album facile, ma senz'altro bello e inusuale.