28 luglio 2025

Lightheaded - Thinking Dreaming Scheming! ALBUM REVIEW


Avete il nuovo dei Jeanines in rotazione da giorni e fate fatica ad allontanarvene? Vi capisco. Ma vi consiglio subito un altro disco che vi farà impazzire, e che - sì sì è così - è quasi più bello di quello di Alicia e Jed. 

Cynthia Rittenbach e Stephen Stec hanno fondato i Lightheaded (oggi un quintetto) quasi dieci anni fa nel New Jersey, ma hanno pubblicato solo un ep e un album prima di questo Thinking, Dreaming, Scheming!, che già dalla copertina fanzine-style grida indie pop a tutto spiano. 

In realtà, lo diremo poi, il disco è una somma di un ep nuovo e un ep vecchio, ma - specialmente se scoprite i Lightheaded solo ora - è un'ottima soluzione per entrare con tutti i piedi nel loro mondo atemporale.

Partiamo dai già citati Jeanines. Non c'è dubbio che i Lightheaded ne condividano l'etica e l'estetica, per così dire, facendo in sostanza parte della stessa scena e della stessa label (che è la Skep Wax di due leggende viventi come Amelia Fletcher e Rob Pursey), ma al contempo interpretano il genere con un'attitudine meno essenziale e con un retrogusto sixties molto più evidente, simile a gruppi come The Aislers Set. 

Same Drop, il pezzo che apre il disco (il lato A, quello nuovo), basterà probabilmente a farvi innamorare per sempre dei Lightheded. Siamo decisamente nel territorio scintillante dei girl groups alla Phil Spector, dei tambourines che sferragliano in aria, delle melodie di zucchero filato, ma anche in quello dei primi Belle & Sebastian, con un uso formidabile del violoncello e della tromba che sembra veramente una citazione degli scozzesi. Che meraviglia!

La successiva The Lindens, The Lindens, The Lindens! ci porta dentro una gioiosa danza vagamente hippy (un po' Fairport Convention), che rallenta e accelera continuamente.

Me and Jessica Fletcher alza i giri e lo fa, giustamente, nello stile anorak post punk dei Talulah Gosh o dei Tender Trap (ed è un omaggio doveroso e sorridente alla regina dell'indie pop). 

The View From Your Room ha quell'aria sghemba e centrifuga, soffice e puntuta al tempo stesso, che piace tanto agli Alvvays e già da sola merita applausi per la sua architettura sonora. 

Crash Landing Of The Clod sembra una outtake del primo album dei Camera Obscura, morbida, avvolgente ed obliqua come sapeva essere la band scozzese.

Con Mercury Girl inizia la side B dell'album, che in realtà è nient'altro che l'ep Good Good Great già edito nel 2023. L'episodio citato è il cuore pop di tutto il disco ed è un pezzo davvero peculiare oltre che ambizioso: sensuale a suo modo, e al contempo ironico, con una allure decisamente brit. Ecco, è qui che i Lightheaded evidenziano una notevole distanza dall'essenzialità lo-fi di tante band di genere (siamo partiti dai Jeanines) e puntano invece a creare un suono pieno (c'è davvero un florilegio di strumenti e cori) in cui è dannatamente piacevole immergersi. 

Una delizia come Orange Crimsicle Head - anche qui splendidi archi che ingentiliscono una struttura cantautorale acustica - ci riporta ancora nello stile di Tracyann Campbell (e ci fa venire un botto di nostalgia di quella scena lì). 

Se The Garden è una filastrocca folk giocosa, Patti Girl è una indie pop gem super frizzante che potrebbe venire tanto da una band della Sarah quanto dalla penna di uno Stuart Murdoch. E la geniale, (anti)romantica, malinconica e magnificamente retrò Love Is Overrated è la conclusione ideale per un'infilata di canzoni che non può che lasciare a bocca aperta. 

Album imprescindibile! Difficile immaginare di stare senza... 

24 luglio 2025

Jeanines - How Long Can It Last ALBUM REVIEW


Si potrebbe scrivere un piccolo trattato su quello che l'indie pop delle origini: quali sono i must stilistici? quali i modelli? quale l'attitudine produttiva e melodica? quale l'etica? 

Poi però, davanti a un qualsiasi album dei Jeanines, sarebbe in fondo sufficiente dire "ecco, questo è l'indie pop originario", e tante parole suonerebbero inutili. Semplicemente il trio americano è il punto di congiunzione ideale fra l'epoca d'oro della Sarah e della K (ma anche dei primi Belle & Sebastian e Camera Obscura) e l'oggi. Come tante altre band, certo, ma con una purezza di spirito talmente limpida da far immediatamente scomparire ogni tentazione di nostalgia. 

Quanto siano fondamentali Alicia, Jed e Maggie per il genere di cui ci occupiamo è ormai scontato ribadirlo: arrivati al terzo album dopo Jeanines e Don't Wait For A Sign, i tre musicisti del Massachusetts danno prova di possedere a tal punto il genio dell'indie pop da sfiorare la perfezione in ogni singola nota suonino.

Tredici pezzi, poco più di venti minuti la durata complessiva del disco, come canone comanda. Da sempre la prerogativa numero uno dei Jeanines è concentrare bellezza in un minuto e mezzo o poco più di canzone: giusto il tempo di un paio di strofe e di un ritornello che ti si appiccica addosso al primo ascolto. Intorno il corredo necessario e nulla più: chitarre magnificamente jangly che si intrecciano rincorrendosi, un basso che punteggia il ritmo con deliberata semplicità, una batteria essenziale, la voce di splendida fragilità di Alicia Jeanine, le belle armonie vocali.

Da The Fall in giù è tutto un fiorire di melodie profumate di leggerezza, che vivono della stessa propulsiva freschezza che avevano quelle band di 30/40 anni fa che amiamo (Heavenly, Talulah Gosh, Pastels.......) e sembrano attraversare il tempo intatte come una cometa di Halley che torna con serena regolarità a illuminare il cielo. 

E' difficile anche scegliere un episodio più bello dell'altro (dirò solo le mie preferite, What's Done It's DoneSatisfied, che canticchio da giorni tra me e me senza manco accorgermene), tanto l'intero album è un flusso compatto di piccoli tesori mid tempo che brillano di luce propria. Tesori che non hanno avuto bisogno di essere abbelliti con una particolare produzione ma, come sempre fanno i Jeanines, esibiscono la loro dimensione completamente artigianale, perfettamente imperfetta. 

04 luglio 2025

Castlebeat - Revival ALBUM REVIEW

Cosa possiamo dire ancora di Josh Hwang che non abbiamo già detto in questi anni? Da una parte è una delle colonne della scena indie pop americana (anche grazie alla sua etichetta Spirit Goth), dall'altra ha portato avanti un percorso di rara coerenza e pure al contempo sempre pronto a sperimentare qualcosa di nuovo nella sua programmatica dimensione DIY. 

Nei sedici episodi (sedici!) di Revival troviamo per l'appunto un'antologia stilistica perfetta e completa di quello che è stato ed è il progetto Castlebeat.

I pezzi di Josh da sempre si collocano idealmente a cavallo di quattro quadranti: quelli dove prevalgono le chitarre (jangly quasi sempre, spesso sfrigolanti), quelli dove prevalgono i synth, quelli più apertamente catchy, quelli più sfumati ed atmosferici. Le variabili sono queste e tirano di più da una parte o dall'altra, mixando gli elementi e spingendo qua e là sul pedale di un post punk squadrato (LiesIvy League ad esempio). Le costanti sono la voce filtrata, la drum machine che scandisce una ritmica mid o uptempo, ed una morbidezza melodica di fondo che è comunque onnipresente ed è forse il segreto della ricetta (rigorosamente casalinga) di Castelbeat.