24 settembre 2022

Lande Hekt - House Without A View ALBUM REVIEW

Bassista e cantante in una band pop punk chiamata Muncie Girls, Lande Hekt è una delle singer songwriter inglesi più talentuose e forse al contempo meno conosciute che ci siano in giro. 

Un po' come è successo a Emma Kupa - più ruvida ed elettrica con i Mammoth Penguins, decisamente sopra i generi e rivolta al pop nelle sue uscite personali - anche Lande sembra smussare gli angoli nelle sue canzoni soliste, almeno dal punto di vista stilistico, visto che l'impegno politico-sociale dei testi resta forte.

Gli undici episodi del disco scorrono via veloci, mettendo insieme una persuasiva leggerezza melodica indie pop (Lande cita i Sundays e i Popguns come fonte d'ispirazione, e si sente), chitarre di contagiosa freschezza, avvolgenti ritmi mid tempo ed un senso di immediatezza, dinamismo ed apertura che anima davvero tutti i pezzi. 

Ascoltando canzoni come Half With You, Ground Shaking o What Could I Sell mi viene da pensare che Lande Hekt sia veramente un ponte ideale fra i punk gentili della scena inglese (Fresh, Martha, etc.) e certo cantautorato femminile americano (Soccer Mommy per esempio), all'incrocio fra impegno, intimismo, una sottile inquietudine elettrica e un'attitudine sempre luminosamente positiva, che si incarna nella ricerca della melodia delicatamente catchy. 

In definitiva, un disco di intelligente piacevolezza, essenziale ed efficacissimo in ogni suo passaggio, semplice e insieme curassimo nei dettagli. Una delle più gradite sorprese di quest'anno! 

18 settembre 2022

The Beths - Expert In A Dying Field ALBUM REVIEW

I Beths sono una di quelle band che da tempo non ha bisogno di presentazioni. Fin da quando, sei anni fa, mossero i loro primi passi nella vivace scena neozelandese, era chiaro a chiunque che possedevano un "qualcosa" di straordinariamente unico nel loro stesso impasto di gruppo che li faceva letteralmente brillare di luce propria, e che erano destinati ad un futuro di successi.
Successi che sono arrivati puntuali fin dal primo album (Future Me Hates Me, una fucina di singoli, che a risentirlo ora fa ancora impressione) e che hanno giustamente proiettato i quattro di Auckland una una dimensione mondiale. Jump Rope Gazers, due anni dopo, fotografava la band in una fase di transizione in cui il power pop originario stava acquisendo una maturità pop nuova, perdendo forse un po' di forza ma provando qualche sfaccettatura diversa. 
Da allora i Beths sono stati molto in tour, hanno pubblicato un significativo album live (che testimonia bene fra l'altro quanto siano amati in Nuova Zelanda), hanno registrato cose nuove, sono stati separati dall'ennesimo lockdown, sono tornati in tour, hanno registrato ancora (il chitarrista Jonathan Pearce nelle abili vesti di produttore), mixato a Los Angeles... ed eccoci qui davanti a Expert In A Dying Field.
I didici pezzi del disco ci raccontano sempre i Beths per quello che sono, senza artifici e con la consueta sorridente franchezza: una band che non ha perso un grammo dell'entusiasmo del debutto, tecnicamente ineccepibile, baciata dal songwriting brillante di Elizabeth Stokes, che oggi come mai si lancia in riflessioni sui rapporti umani e la loro durata (il titolo del disco a questo allude). 
Pezzi come quello che dà il titolo all'album, e poi Knees Deep e Silence Is Golden - non a caso la tripletta che apre il disco - imprimono subito con decisione il marchio stilistico dei Beths che ben conosciamo: ritmi moderatamente uptempo, chitarre frizzanti, melodie rotonde ed energetiche al tempo stesso, un florilegio di cori, e quell'idea di immediatezza intelligente e luminosa che i quattro maneggiano con tanta naturalezza da sempre. 
Nel resto degli episodi, Stokes e compagni, esattamente come avevano fatto nel secondo album, provano ad allargare con equilibrio la palette dei loro colori, prima di ritornare, nei numeri finali (A Passing Rain, I Told You That I Way Afraid) al punk pop gentile à la Weezer che fa parte del loro dna.  
Fin qui tutte le cose che ci aspettiamo dai Beths e che, inutile dirlo, sono costruite con la consueta bravura ed efficacia: funzionano, mettono di buon umore e fanno scuotere teste e piedi. In mezzo (ed in coda) i pezzi meno catchy e vagamente più ambiziosi: la morbida e distesa Your Side; la quasi beatlesiana I Want To Listen; la super propulsiva Head In The Clouds (con le sue chitarre muscolari e le armonie vocali bethsiane fino al midollo); la più articolata e scenografica Best Left (la mia preferita del lotto senza dubbio, con il suo andamento sognante e inquieto al tempo stesso); la emozionante, lunghissima, lenta e solenne 2AM, su cui scorrono i titoli di coda, in un crescendo di studiata delicatezza in cui chitarre, batteria e voci finiscono a rincorrersi in un girotondo che fa scomparire il paesaggio attorno e punta direttamente ad un cielo stellato australe. 
L'impressione che lascia in definitiva Expert In A Dying Field è quella di un album su cui Stokes, Pearce, Sinclair e Deck hanno speso insieme e con convinzione la consapevolezza del proprio valore, mescolando con misura pezzi che potranno esplodere dal vivo ed altri che riflettono un lavoro produttivo di pregio e resteranno credo confinati nel disco. 

15 settembre 2022

The Boys With The Perpetual Nervousness - The Third Wave Of... ALBUM REVIEW

Il jangle pop, lo sappiamo bene, ha una tradizione lunga e ramificata, da questa e dall'altra parte dell'oceano (e pure in Australia e in Asia in verità), e attraversa ormai sessant'anni di storia del rock e del pop. Molti artisti oggi lo utilizzano come coloritura per il proprio stile personale. Pochi ne fanno una vera scelta di purezza, andando ad abbeverarsi direttamente alla fonte primaria dei Byrds e a quella secondaria dei Teenage Fanclub del periodo più scampanellante. Tra questi senz'altro l'iperattivo Roger Donaldson (The Reds Pinks & Purples) ma anche i forse meno prolifici ma altrettanto innamorati del genere Andrew Taylor e Gonzalo Marcos.

Arrivati al terzo album (il titolo parla chiaro), i due musicisti uniscono di nuovo le forze "a distanza" (Scozia - Spagna) in nome delle didici corde, coinvolgendo anche una figura mitica dell'underground americano come Mary Lou Lord (una che è stata amica, o forse qualcosa in più, del giovanissimo Cobain e che ha lavorato con Elliott Smith). 

I dieci nuovi pezzi dei TBWTPN scorrono via con una fresca dolcezza senza tempo, sempre pienamente luminosi - chitarre che si intrecciano e cori di miele - sempre in nome di una rotondità melodica che non ha alcuna tentazione di fare deviazioni dalla propria canonicissima strada. 

11 settembre 2022

Snow Coats - If It Wasn't Me, I Would've Called It Funny ALBUM REVIEW

Da queste parti seguiamo gli Snow Coats più o meno da quando hanno cominciato a pubblicare singoli. Un paio d'anni fa in particolare ci siamo innamorati di una canzone intitolata Pool Girl e da allora abbiamo segnalato volentieri ogni uscita del gruppo olandese.

Finalmente siamo arrivati al secondo album (il primo, ancora piuttosto seminale, è datato 2018) e - considerando l'affetto che nutriamo per Anouk van der Kemp e compagni - è già di per sé un po' una festa. 

Non diversamente da band che adoriamo come Fightmilk, Beach Bunny, Fresh, Martha, Beths, Remeber Sports, Nectar, Ex-Void (tutta quella schiera di "punk gentili" che si sono fatti le ossa nei garage), gli olandesi mettono insieme dinamismo elettrico e leggerezza melodica con una naturalezza impressionate ed una spontaneità entusiastica che sono il loro vero marchio personale. 

I dieci pezzi dell'album potrebbero essere tranquillamente dieci singoli, tanta è la sorridente forza antemica che si portano addosso: già l'infilata micidiale dei primi tre episodi (For A Moment, Anyway, Dinosaur) fa alzare dalla sedia e canticchiare i ritornelli insieme a loro, ma l'intero disco è pieno di canzoni di luminosa forza, scritte con sicuro talento (menzione necessaria per le liriche di Anouk, sempre argute e intelligenti), prodotte con una cura dei dettagli mirabile e capaci nel loro complesso di toccare corde diverse, soprattutto nella seconda parte del lotto, dove emerge anche un'anima romantica (Since We Met) e acustica (Too Good).

L'album della consacrazione definitiva per uno dei migliori gruppi guitar pop d'Europa. 

07 settembre 2022

Forever Honey - Could I Come Here Alone EP REVIEW

Provenienti da quella gigantesca fucina indie che è Brooklyn, i Forever Honey si sono fatti conoscere un paio d'anni fa con un EP dal curioso titolo Pre-Mortem High, che nei suoi quattro pezzi tracciava una via personale al dream pop partendo più o meno dal suono liquido delle Lush e finendo in territori di confortevole morbidezza cantautorale, con un delicato retrogusto folk.

Ricordo all'epoca di non esserne stato particolarmente impressionato, ma forse semplicemente non ero nel mood giusto, perché in realtà - risentito oggi - si trattava di un EP di sicuro fascino con una personalità già molto definita.

Non nutro invece alcun dubbio invece sull'EP appena uscito, Could I Come Here Alone, che mi ha ipnoticamente rapito fin dall'iniziale Singing To Let The Englad Shakes.

Liv Price e i suoi tre compagni hanno un approccio ad ogni pezzo che passa tutto dalle sfumature, dalle atmosfere, in definitiva dall'effetto che la stanza emotiva in cui ci accolgono ha su di noi. Non diversamente dai Cigarettes After Sex, ma in modo meno estenuato e sensuale, i Forever Honey costruiscono a partire da ritmi slow e midtempo e da un intreccio di chitarre, basso e synth che crea sempre una sensazione di abbraccio sognante, senza ricercare il ritornello catchy (che è spinto direi solo nella super scenografica I've Been Down) ma una circolare piacevolezza d'insieme che è senz'altro più di un puro esercizio di estetica. 

L'impasto di miele delle voci di Liv e della chitarrista Aida Mekonnen è sicuramente l'altro determinante plus del gruppo newyorkese: un concentrato di eleganza notturna che difficilmente può lasciare indifferenti (vedi il finale di I'm A Winner I'm A Loser). 

Una piccola meraviglia da non perdere.

03 settembre 2022

Happy Accidents - cgwarmth ALBUM REVIEW

A due anni da Sprawling ritornano gli Happy Accidents di Phoebe Cross e Rich Mandell. I nomi dei due musicisti londinesi li conosciamo già bene, perché innanzitutto sono due quarti dei nostri amati ME REX, e poi per il fatto che Rich ha prodotto l'ultimo disco dei Fresh (che contengono non a caso i due quarti rimanenti).

I sette pezzi del disco emergono da una sessione di studio in cui Phoebe e Rich hanno concentrato (anche a livello di tempo) le loro forze per sviluppare qualche idea solo abbozzata. Il risultato mette insieme una programmatica idea di essenzialità ma anche - lo avevamo già notato per il precedente album - una grande intelligenza produttiva che lavora con perizia su ogni dettaglio.  

Rispetto alle band citate, che sembrano comporre un piccolo arcipelago artistico in cui i vari membri si scambiano expertise ed amicizia, gli Happy Accidents rappresentano il lato più intimista e delicato: meno chitarre elettriche più acustiche, synth quasi onnipresenti come elemento architettonico e non decorativo dei pezzi, ritmi e tempi distesi ed un approccio alla canzone che ama far emergere l'anima catchy (che è presentissima, in modo evidente soprattutto nell'adorabile Stay e nell'iniziale cantilenante e sognante Lighter) in modo più sfumato e meno diretto. L'alternanza e la compresenza delle due voci è l'altro fattore che costruisce in modo forte la personalità del duo: quella più aspra di Rich e quella sottile e graziosa di Phoebe si integrano alla perfezione e anche all'interno della stessa canzone offrono coloriture diverse e alla fine riescono ad integrarle (in Cry per esempio).