28 novembre 2021

Violet Cheri - Sölvesborg ALBUM REVIEW

C'è stato un periodo - fra i '90 e i '00 - in cui la Svezia sembrava una piccola patria ideale dell'indie pop. C'era tutto un fiorire di band, dai floreali Cradigans allo shoegaze dei Broder Daniel, dagli Happydeadman ai Popsicle, dai Sambassadeur agli Acid House Kings, che facevano musica con le chitarre in declinazioni diverse ma con le stesse radici affondate nel vasto giardino del post punk. Pochi se ne sono accorti a sud del sessantesimo parallelo, ma esisteva davvero un movimento, che con il succedersi delle nuove generazioni in verità non si è del tutto spento, come testimonia - ne abbiamo parlato di recente - un gruppo come i Makthaverskan. 

Ho scoperto i Violet Cheri un paio d'anni fa quando uscì un singolo che si intitolava Scared To Be Happy (titolo per altro che gronda indie pop da tutti i pori): un gioiellino guitar pop che con il suo coinvolgente uptempo, la sua struttura a crescendo e la sua sfrontata verve melodica ti si stampava in testa nel giro di qualche secondo. 

C'è voluto del tempo perché il carismatico Daniel Hoff, leader della band originaria del sud della Svezia (dove si trova la Sölvesborg che dà il nome all'album), decidesse di mettere insieme i singoli che si sono succeduti negli ultimi mesi e pubblicare finalmente il disco di debutto. 

Disco che è, diciamolo subito, una bomba! 

Fin dall'iniziale Trouble, con le sue chitarre croccanti, i suoi coretti deliziosamente sopra le righe, l'energia vocale spontanea e un po' sbilenca di Hoff, è chiaro che l'intero album si gioca tra una superficie luminosa e straordinariamente leggera e un cuore colmo di sofferenza adolescenziale, che proprio in questa dimensione saltellante e sorridente trova un travolgente sfogo catartico. C'era poco di allegro nell'essere un teenager non precisamente popolare nella provincia profonda di Sölvesborg, ci sembra di capire: è questo lo scrigno da cui sgorga copiosa l'ispirazione di ogni singola canzone dell'album.

Prendiamo Shy Hurricane, dove Daniel canta liriche come queste "I can't walk straight, I tremble / oh I'm such a mess / I invite death with open arms / and I will make a scene / and destroy the world" ma lo fa con una gioia straniante che il pezzo, un pop punk più pop che punk (come tutto quello che fanno i Violet Cheri), esalta con l'entusiasmo di una band di ragazzini che suonano e fanno festa nel garage dietro casa. Oppure Hey Honey Heaven dove sentiamo una cosa tipo "Oh summer takes its first breath / It's so beautiful / But I'm too strange to enjoy it" e allo stesso tempo ci viene una voglia matta di ballare.

Gli undici episodi del disco non staccano praticamente mai il piede dall'acceleratore e non c'è davvero un momento in cui venga meno la voglia di uscire e correre in giro salutando gli sconosciuti che passano e sorridendo alla vita. Tanto che quando le luci si abbassano sul numero finale Finest Hour, che è una lunga scenografica ballata di soffusa delicatezza, il fiatone si tramuta in un commosso afflato di tenerezza e lacrime. Daniel canta di sogni infanti e di delusioni che vogliono che tu ti arrenda, ma poi a poco a poco  tutto torna ad avere perfettamente senso:  "Lord knows, I'm not done yet / I'm gonna show them wrong / I'm not done yet / What am I waiting for / 'cause life has just begun / And I don't need anyone / This is my triumph!". Applausi. 

Ci aspettavamo grandi cose da questa quasi sconosciuta band svedese, e la promessa è stata pienamente mantenuta. Sölvesborg è un album di canzoni magari imperfette, magari non terribilmente originali e ambiziose, ma brucianti di un'urgenza comunicativa pazzesca e che fanno prima di tutto bene all'anima. 

26 novembre 2021

Jetstream Pony - Misplaced Words EP REVIEW

Una band come i Jetstream Pony, ne sono convinto, è davvero una benedizione per ogni amante dell'indie pop. E il fatto che, ad una distanza così breve dall'omonimo album di debutto, arrivi giusto oggi un nuovo EP (o mini LP, la dimensione è ibrida) è veramente un grande e inatteso regalo.

Beth Arzy, Shaun Charman, Hannes Mueller e Kerry Boettcher - li conoscete già, sono tutti musicisti con un curriculum pazzesco - continuano a incrociare le proprie strade musicali e hanno messo insieme in questo Misplaced Words sei nuovi episodi che scintillano di energia jangly, sfrigolano al punto giusto di elettricità e avvolgono con le loro morbide spire melodiche vocali.

Come già appariva chiaro dal disco uscito l'anno scorso, lo stile dei Jetstream Pony ha grandi somiglianze con quello degli straordinari Luxembourg Signal (l'altro gruppo di Beth Arzy), ma è decisamente più diretto e meno raffinato dal punto di vista formale. I riferimenti espliciti al post punk, al C86 e a tutto quello che è seguito sono i medesimi, ma i JS preferiscono un'essenzialità più ruvida e vagamente notturna, intessuta sempre di un efficacissimo dinamismo. In pezzi come l'iniziale Seven Days (ma gli altri seguono idealmente a ruota), accanto ad una tangibile inquietudine, emerge sempre un'immediatezza luminosamente cantabile che li rende irresistibili. 

22 novembre 2021

Swansea Sound - Live At The Rum Puncheon ALBUM REVIEW

Went to Ramones when I was thirteen / they're the coolest thing I had ever seen / Now I'm looking back and wondering / Was it Them or was it me. Con queste liriche inizia l'album degli Swansea Sound: con una ironica e bonaria confessione retrospettiva di quattro musicisti che, per l'appunto, avevano tredici anni ai tempi dei Ramones e tre ai tempi dei Kinks, ed ora non possono che sentirsi intorno un Rock N Roll Void

Tuttavia, superando ogni tentazione nostalgica o lamentosa, il quartetto formato da Hue Williams, Amelia Fletcher, Rob Pursey e Ian Button dichiara a gran voce nelle sue canzoni una gran voglia di fare "fast, political, loud indiepop punk". Ed è proprio quello che ritroviamo nei tredici episodi di Live At The Rum Puncheon, che suonano esattamente come avrebbero suonato quando Swansea Sound era una radio in attività (a fine '80 quindi) e i Nostri già militavano in band che hanno fatto la storia dell'indie pop.

You gotta fight / Resist over production cantano I nostri in Indies Of The World - che è a mio parere l'episodio più memorabile del lotto - ed è un proclama coerentemente rispettato: tutto nel guitar pop tangente punk degli Swansea Sound è essenziale, immediato e insieme efficacissimo. L'impressione a tratti è di trovarsi davanti agli Heavenly (I Sold My Soul On Ebay) o ai primi Hefner (Let It Happen) ed è una piacevole impressione, ma in definitiva gli Swansea Sound possiedono la loro personalissima dimensione rock n roll, proprio nel senso che si sente che sono dei vecchi amici che suonano insieme e si divertono un mondo a farlo. Così come si divertono a sorridere sarcasticamente del loro passato (vedi The Pooh Sticks e Corporate Indie Band) e persino del nostro confuso presente (Freedom Of Speech). 

18 novembre 2021

Penelope Isles - Which Way To Happy ALBUM REVIEW

Quanto ci vuole per innamorarsi di una canzone? Nel caso di Terrified, il pezzo che apre l'album di debutto dei Penelope Isles, a me è bastato il tempo delle prime quattro pennate di chitarra - la chitarra fresca e croccante che è il sangue stesso nelle vene dell'indie pop - prima ancora dell'entrata della sezione ritmica e della voce rotonda e gentile di Lily Wolter. 

Penelope Isles, band dell'Isola di Man ma basata a Brighton, ruota attorno ai fratelli Jack e Lily Wolter e già da anni si fa le ossa praticando un guitar pop dalle radici lunghissime e dagli orizzonti decisamente ampi, che guarda con un filo di sorridente nostalgia ai colori e ai profumi dei Sixties dei girl groups e della psichedelia più potabile, ma lo fa con uno spirito che poi non è per nulla nostalgico e che passa per la tradizione del dream pop degli albori (vedi i Cocteau Twins, prendete Sailing Still ad esempio).

Molte cose colpiscono negli undici episodi di Which Way To Happy. Innanzitutto la capacità di mettere insieme una evidente ambizione sperimentale (penso a un pezzo come Iced Gems) con una sincera ricerca di immediatezza melodica che sfugge con risolutezza ad ogni tentativo di etichettatura di genere ("alt pop" risolveranno i recensori, senza risolvere nulla). E poi - ed è l'elemento più forte - la scelta stilistica di riempire a livello sonoro ogni singola piega delle canzoni con una pioggia estiva di strumenti e voci che si alternano e sovrappongono: chitarre morbide e/o affilate, delicate e/o distorte; archi avvolgenti e campanelli di ogni genere; synth eterei e pattern elettronici; cori di scenografica preponderanza. Un horror vacui che rischierebbe di diventare maniera se non fosse che sempre, al punto giusto dentro i 4 o 5 minuti di ogni pezzo, la dimensione orchestrale si infila nell'imbuto pop di un ritornello di più facile lettura e dà un senso perfetto a tutto.

Un album bello. Non facile.

14 novembre 2021

Makthaverskan - För Allting ALBUM REVIEW

Nel 2017, quando uscì III, il loro terzo album, fu chiaro a tutti quanto i Makthaverskan fossero depositari di un ideale fuoco sacro post punk che dai Joy Division scendeva giù fino alla contemporaneità. Poche band come quella di Göteborg erano in grado di essere spigolosamente catartiche, con la vocalità potente e quasi gridata di Maja Milner, la pioggia torrenziale di chitarre, i ritmi squadrati, inquieti e uptempo, la forza comunicativa che fa diventare a poco a poco melodia una rabbia a stento trattenuta. 

Ritroviamo oggi i ragazzi svedesi con una certa emozione ed ovviamente tutti ci aspettiamo che l'eredità di III finisca dritta in un IV che ne riprenda alla perfezione le tinte stilistiche. Non è così, o almeno non del tutto, e forse la decisione di bloccare la numerazione romana in virtù di un titolo a parole, per quanto criptico ("per ogni cosa" è la traduzione), va a significare una transizione, o piuttosto una maturazione.

I nuovi pezzi dei Makthaverskan, intendiamoci, suonano assolutamente come devono suonare: intrisi fino alle ossa di una tradizione indie che proviene dai Cure dei primi Ottanta, dai Jesus & Mary Chain, dallo shoegaze delle origini, dall'indie di Sonic Youth e Blonde Redhead, da tutto un meraviglioso filone di chitarre acide e sature che si intrecciano e si accalcano attorno a linee melodiche di fluida immediatezza. Quello che c'è in più - ed è evidente - è una maggiore consapevolezza produttiva, che sembra limare le imperfezioni e aggiungere qualche tocco in più (synth, drum machine...) senza voler strafare, inquadrando anche la esuberanza vocale di Maja ed esaltandone invece stavolta più la raffinata versalità (mi pare che l'accoppiata Closer e Caress riassuma bene quello che intendo). Quello che non c'è più, forse, è quella energia primordiale e propulsiva che animava i primi tre dischi, e che qui dopotutto è più che giusto e normale che sia sostituita da una preoccupazione per la forma oltre che per il contenuto, viaggiando anche verso soluzioni più morbide e decisamente dream pop (il terzetto conclusivo These Walls, For Allting, Maktologen, quest'ultima che pare uscita da un disco dei Night Flowers, ed è un complimento ovviamente), dove le strutture stesse e i confini temporali delle canzoni si dilatano raggiungendo i cinque minuti e fluttuando a tratti un iperspazio sonoro. L'anima in fondo si può preservare benissimo anche se si rinuncia ad un estetica di essenzialità lo-fi. 

Ci sono ovviamente i numeri più vicini allo stile che conosciamo bene - This Time o TomnorrowTen Days - e ancora brillano di quella freschezza che i ragazzi di Göteborg ancora possiedono inalterata, pur non avendo più addosso gli immancabili vestiti neri ma degli abiti più colorati e luminosi. 

Uno degli album imperdibili del 2021, ma non c'è nemmeno bisogno di dirlo. 

10 novembre 2021

Soot Sprite - Poltergeists EP REVIEW

Partita, come spesso avviene, da un progetto solista interamente autogestito, l'inglese (di Exeter) Elise Cook ha trasformato a poco a poco Soot Sprite in una vera band, aumentando di EP in EP i giri e l'elettricità.

I sei pezzi di Poltergeists risentono felicemente di questa evoluzione, mettendo in campo un guitar pop che sa essere solido e spigoloso, morbido e immediato al tempo stesso. 

La scuola sembra essere la stessa di cantautrici americane di oggi come Phoebe Bridgers (l'uso della tromba in Accolade e It's Summer And I Don't Feel Like Smiling riprende con efficacia la formula magica di una Kyoto), Snail Mail, Adult Mom, Soccer Mommy, ecc., dove una prepotente dimensione emozionale trova una liberazione catartica nella costruzione scenografica dei pezzi, in una vocalità volutamente imperfetta (vedi Alex Menne dei Great Grandpa ad esempio) e in chitarre sature di energia statica. Mentre sia le liriche che il mood generale vivono in una notte baluginante di poche ma abbaglianti luci. 

Tutto davvero notevole, ma ora ci aspettiamo un album intero!

06 novembre 2021

Fortitude Valley - Fortitude Valley ALBUM REVIEW

Spesso capita che, tra un palco e l'altro, band diverse finiscano per mescolare parte dei loro ingredienti umani e musicali, magari giusto con lo spirito di vedere cosa viene fuori. Nel caso dei Fortitude Valley c'è sicuramente questo, ma le frequentazioni dei membri della band affondano in un passato dimenticato (e forse dimenticabile) se è vero che Laura Kovic, vera titolare del progetto, e Greg Ullyart hanno militato insieme in una cover band dei Blur chiamata, sentite sentite, Bleurgh. 

La cosa principale, in definitiva, è che il motore di tutto sia l'amicizia. E non c'è dubbio che Kovic (tastierista dei Tigercats), Ullyart (chitarrista dei Night Flowers), Ellis e Stephens (chitarra e batteria nei Martha) siano prima di tutto amici che si sono ritrovati a mettere insieme i propri notevoli talenti - si tratta di band che non hanno bisogno di presentazioni e che da queste parti adoriamo - per dare vita a undici canzoni di Laura, una musicista che nei Tigercats non era certo al centro della scena per quanto fosse fondamentale.

Canzoni, quelle di Fortitude Valley, che brillano di una scrittura diretta, intelligente e piacevolissima (il primo paragone che mi viene in mente sono i Mammoth Penguins di Emma Kupa) e possiedono il ruvido dinamismo e l'elettrica e muscolare immediatezza di tutte le band che abbiamo citato sopra: chitarre super frizzanti, una sezione ritmica votata all'uptempo, la voce delicata della Kovic a disegnare, episodio dopo episodio, una personale traiettoria gentile e colorata dentro l'elettricità del punk pop, come se i primi Belle & Sebastian avessero alzato i tempi ed aperto i distorsori (è giusto l'impressione che mi fa un pezzo come Forget About Me, che è il mio preferito del lotto). 

Uno degli album imprescindibili del 2021. 

02 novembre 2021

Rural France - RF ALBUM REVIEW

Ci sono molti validi motivi per innamorarsi dei Rural France. Innanzitutto per la loro arguta ironia: per dire, si autodefiniscono "la band influenzata dai '90 che lavora più duro nel West Wiltshire". Questo ci porta a due altre ottime ragioni: la voluta scelta della provincia come pura dimensione creativa (pensiamo alla Durham dei Martha ad esempio) e ovviamente la totale dedizione all'indie dell'età d'oro, quegli anni Novanta che sono un grande cofano di meraviglie in cui è sempre bello rovistare. 

Tom Brown e Rob Fawkes, che non sono esattamente due sbarbati, si occupano di modernariato Nineties già da un pezzo, si prendono il giusto tempo per rinfrescarlo nelle loro canzoni, e poi - come succede ora - se ne escono con un nuovo album che è un vero gioiello. 

Gli undici episodi di RF sfrigolano allegri di elettricità garage pop e si affidano alla gentile spigolosità delle chitarre per dare vita ad una entusiasmante serie di piccoli inni indie dall'animo profondamente lo-fi e dalla energica spontaneità che - a sentire loro stessi, e non è difficile da credere - è ispirata direttamente all'immediatezza anarchica dei Guided By Voices. 

Chi i Novanta li ha vissuti in diretta - è il caso di chi scrive - riconoscerà nelle pieghe dei pezzi dei Rural France riferimenti più o meno diretti a un lunghissimo elenco di band dell'epoca, dai Pavement ai primi Teenage Fanclub, dai Grandaddy ai Lemonheads, passando per i Built To Spill e i Nada Surf. Giochino divertente, ma che poi in definitiva non è così indispensabile per apprezzare il lavoro dei due inglesi.

Al di là dell'elemento nostalgico, che ci sta, quello che colpisce è soprattutto la contagiosa freschezza che i Rural France spargono a larghe mani in ogni singolo momento di ogni canzone. Un'attitudine che passa senz'altro attraverso l'indole guitar pop della band, ma anche dalla capacità di imbastire quasi ovunque armonie vocali di eccellente efficacia. 

Un album davvero rigenerante.